Da quando sono nato sono vissuto sempre a Roma, e ho sempre abitato in periferia. Con i miei tra Casal de’ Pazzi e Rebibbia – ossia la zona che ora è diventata lo sfondo per tutte le storie di Zerocalcare – poi a Borgata Ottavia all’inizio di via Casal del Marmo, e adesso, da quattro, cinque anni tra Nuovo Salario e Fidene, vicino al punto dove qualche giorno fa hanno pestato a sangue un settantenne e dove si svolgeranno un paio di manifestazioni di solidarietà alle quali Borghezio ha fatto sapere di non voler mancare.
In questi giorni pensavo che molte delle persone romane che conosco, romane di nascita o d’elezione, non solo non hanno mai messo piede a Rebibbia, a Fidene o a Ottavia, ma non sanno nemmeno dove si trovano. Così quando sentono parlare di Tor Sapienza, s’immaginano un luogo sperduto nell’agro romano, e non un quartiere praticamente residenziale dentro il raccordo. Dall’altra parte molte delle persone romane che conosco che abitano, mettiamo, a Cinquina o a Palmarola, quando devono andare a piazza Navona, non dicono: vado in centro, ma vado a Roma.
Il fatto è che se uno vuole capire questa città, almeno deve riconoscere quest’assunto: che di città ne esistono due, e non parlano la stessa lingua. (Non è certo un caso se giusto l’anno scorso sono state raccontate con due retoriche incommensurabili e estremizzate da La grande bellezza e Sacro Gra). In una si vive se hai i soldi, se puoi permetterti degli affitti alti, di pagarti un parcheggio mensile per la macchina eccetera. Nell’altra puoi sopravvivere, non succede niente, la sera gli unici posti illuminati sono i bancomat, è tutto un mortorio almeno fino a quando non scoppieranno i riot urbani.
Non vi convince questa divisione netta? Se non l’avete mai fatto, provate l’esperienza di prendere per una settimana di seguito alle 7 di mattina il trenino metropolitano che viene da Borgata Ottavia a Trastevere, o quello che da Fidene va a Ostiense.
Ma questa concezione polarizzata della città non è solo il risultato naturale di evoluzioni urbanistiche della società come si dice globalizzata (Rem Kolhaas nel suo Junkspace lo spiega benissimo), ma rispecchia di fatto una progettazione e una gestione consapevole delle amministrazioni capitoline dal dopoguerra in poi, conseguenza a sua volta di una incredibile sudditanza nei confronti dei palazzinari – i veri padroni di questa città (Il tramonto della città pubblica di Francesco Erbani è l’ultimo dei libri in cui si citano con cura dati e responsabilità): prima le case e poi un’idea di città.
Nel 2009 quando Veltroni si dimise da sindaco, rilasciò un’intervista al settimanale Sette in cui raccontava che l’atto di cui andava più fiero della sua esperienza da sindaco era aver riqualificato villa Borghese. Ed è vero, villa Borghese è un parco bellissimo oggi, e si trova a qualche centinaio di metri da casa di Veltroni. Io però, mentre leggevo l’intervista, pensavo: ma Quartaccio? Veltroni cosa ha pensato per Quartaccio?
Eppure i politici per certi versi sono perfino un po’ meno colpevoli di quello che si pensa, se di fatto questa mentalità classista di una città scissa tra centro e periferia è un concetto introiettato, e sembra per nulla problematico. Per anni abbiamo pensato che occuparsi della nostra città non fosse fare politica, abbiamo guardato le notizie di cronaca nera con un misto di supponenza e irritazione, abbiamo smesso di avere un ruolo attivo, critico, quasi fosse una roba da provinciali. Abbiamo sorriso complici di gusto alla scenetta di Nanni Moretti che con la Vespa va a visitare per la prima volta in vita sua Spinaceto, dice mica male, e cinque secondi dopo scappa per non tornarci mai più. E infine, quando esplode Tor Sapienza, ci meravigliamo. Dove covava questa rabbia? Da nessuna parte. Era al baretto sotto casa mia.
E ora? Tor Sapienza rischia di diventare una specie di non-luogo giornalistico. Abituati a non fare esperienza di questa città, a nessuno viene nemmeno l’idea di prendere la macchina e, invece di vedere le immagini fasulle e conniventi di una troupe televisiva, farsi un giro da quelle parti. Ci si metterebbero venti minuti dopo l’ora di cena.
Peccato, perché magari quella storia sentiremmo che è una storia nostra.
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