Le serie televisive basate sul lento addensamento e dispiegamento del male, un male che può arrivare da una frontiera lontana o da una dimensione ultraterrena come in Game of thrones o Stranger things, ci hanno abituato a un episodio specifico. Di solito avviene nella penultima puntata di una stagione, quella della battaglia “intermedia”. Quando tutte le forze dei combattenti per cui tifiamo sono ridotte al minimo storico, si formano bande e coalizioni ambiziose ma lacere, e ci si scaraventa contro il nemico con una grandissima improbabilità di vittoria. Ovviamente in queste puntate si vince. Il male si ritira per un po’, ma non scompare.
La vittoria di Joe Biden e di Kamala Harris contro Donald Trump e Mike Pence somiglia a questo tipo di battaglia: è un finale di stagione, non il finale di una serie.
Di solito questi episodi sono più belli ed entusiasmanti di quelli che poi mettono fine alla saga. Alcune serie sono troppo lunghe, si arriva esausti allo scontro definitivo, e con un’epica ormai sgonfiata. Anche perché spesso il cattivo della sequenza finale non è un mostro grottesco che sbava e si dibatte nella sua follia, ma una specie di architetto o ingegnere. Un mago di Oz subdolo e maligno che dà meno soddisfazione, proprio perché appare irrimediabile, insormontabile. Intrinseco al sistema. Questo mago di Oz che non nasce da Donald Trump (semmai da Ronald Reagan) ma che ha creato Donald Trump e poi si è lasciato ispirare dalla sua improvvisazione, vive già in molti luoghi degli Stati Uniti, anche inaspettati, e si prepara a un finale che non sappiamo quando arriverà. Come dimostra l’analisi del voto di questi giorni, la sua presenza non è circoscrivibile all’interno di singoli stati, di singoli distretti o all’interno di singoli gruppi demografici: è metastatica, molecolare, è ovunque.
Le sfide
Stanare questa figura dalle molteplici incarnazioni, soprattutto all’interno di un Partito repubblicano con cui sarà costretto a collaborare poiché ha la maggioranza in senato e il controllo della corte suprema, non sarà l’unica impresa di Joe Biden, che di fatto non potrà davvero portarla a termine: la sua sarà una presidenza di un solo mandato, e stroncare il trumpismo è oltre le sue ragionevoli possibilità. In queste ore di vittoria, si consolidano già certe alleanze, avvengono già molti trasformismi da parte dei repubblicani: quando il potere collassa, e l’utile cattivo viene fatto fuori, i più cattivi si reinventano. Joe Biden, che è essenzialmente un politico di strategie e di alleanze, proverà a dominare questi movimenti cercando di non rovinare la festa a chi lo ha votato.
Anzi, per rincuorare chi lo ha votato, fa il nome del presidente più rassicurante di tutti, Franklin Delano Roosevelt, e immagina quattro anni di grandi coalizioni e di ricostruzione, fatti di sentimenti buoni ed ecumenici. Sono sentimenti utili, e che vanno presi sul serio: se c’è qualcosa capace di convertire l’animo di molti statunitensi che si sono abbandonati a un nichilismo di bassa intensità negli ultimi anni, sedotti dal cinismo della propria convenienza, è proprio una retorica basata su un lessico rassicurante e familiare. Con Obama c’era uno spirito di scoperta e di riconoscimento di una popolazione che si era vista sempre fuori dai giochi elettorali, per quanto poi disatteso almeno in parte, mentre con Biden viene meno il senso di avventura, e si invitano i cittadini a sfebbrare a letto. Questa retorica funzionale alle elezioni è la stessa che traspare dagli spot natalizi o di Amazon: non è un’epica autenticamente politica in sé, ma fa politica: genera sentimento e una dimensione corale, un tipo di esperienza che negli Stati Uniti ha una dimensione colossale.
La vittoria di Biden ha scatenato un’euforia paragonabile a quella che segue un esorcismo ben riuscito, almeno per una parte della nazione. Lui e Harris sono i cerimonieri che hanno messo l’esorcismo in pratica – è soprattutto a Kamala Harris che viene chiesto di incarnare una funzione carismatica a fronte di un presidente incapace di grandi liturgie –, ma in realtà è stato un rito collettivo. Un atto voluto, e a cui è stata la popolazione accorsa in massa al voto a dare significato.
I temi progressisti
Le danze nelle strade di Filadelfia e Detroit, Washington e New York fanno pensare istintivamente a questo. Non sono balli che ricordano la vittoria della rivoluzione, ma balli di liberazione. Evocano una gioia che erompe e che prescinde dal messaggio del candidato che l’ha resa possibile, perché alla fine chi ha votato non lo ha fatto tanto per Joe Biden (ed è anche un bene che ci si avvii a elezioni meno carismatiche e meno dipendenti dalle omelie su Twitter), quanto per dare sostanza e orgoglio alla propria forza politica. Ha votato per la propria stanchezza, ha votato per la propria mobilitazione sul piano locale, ha votato per la propria delusione e ha votato per il proprio riscatto, che viene assorbito e compreso solo in parte dal programma di Biden.
Grazie a Bernie Sanders e ai progressisti del partito che si sono spesi in maniera davvero commovente per vincere in alcuni stati cruciali a prescindere da un establishment democratico che li trattava da appestati (una nota: tutti i rappresentanti progressisti che hanno insistito su Medicare for all sono stati confermati, a dimostrazione che c’è una fortissima spinta verso la sanità gratuita) – a partire da Stacey Abrams in Georgia che sarebbe stata una meravigliosa vicepresidente per quanto di minore esperienza –, il programma di Biden è il meno centrista con cui un candidato democratico si sia presentato alle elezioni: Biden non è un conservatore che si è travestito da socialista, è un conservatore che con un po’ di paternalismo prende dal socialismo americano quel che ora gli serve, perché lì tira il vento. E forse, con un po’ di strategia, sa che molte di queste ambizioni per quanto già ridimensionate – un’assicurazione pubblica competitiva invece di Medicare for all, rendere i community college gratuiti, limitare il fracking ma non eliminarlo completamente –, difficilmente potranno essere tradotte in legge per via della composizione del senato.
Insistere sui temi dei progressisti per vincere le elezioni è stata una scelta saggia. Per alcuni alleati di Biden, anche il fatto che questi cambiamenti saranno quasi impossibili è una cosa saggia: già l’altra sera il governatore repubblicano dell’Ohio John Kasich – che ha sostenuto la corsa di Biden e avrà probabilmente un ruolo di primo piano –, sosteneva che un senato in mano ai conservatori è la cosa migliore che sia successa al nuovo presidente, che così potrà liberarsi dei capricciosi ossessionati dal welfare e dalla riforma della polizia.
Se l’amministrazione Trump portava tutto grottescamente alla luce del sole, e nelle sue goffaggini e perversioni non è riuscita a mantenere i segreti che voleva, stanata dai pettegolezzi, dal giornalismo d’inchiesta e dall’incapacità di chi ne faceva parte, questi quattro anni di riabilitazione faranno tornare la politica a essere quel che è: un’attività di mediazione nascosta, fatta di alleanze e di segreti ben custoditi, più opaca e responsabile. È quel che in fondo i democratici centristi e la grande borghesia stanno chiedendo a Biden e Harris: fate le cose, ma non fatecele vedere troppo. Tra tutte le dimensioni oscene della presidenza Trump, c’è stata anche questa nudità imbarazzante del potere, che si è infantilizzato mettendo in imbarazzo i suoi più fieri custodi.
E quindi i prossimi quattro anni di riabilitazione del paese saranno proprio una dialettica tra due forze democratiche: tra l’earnestness – la sincerità quasi ruvida di Sanders, Abrams e Ocasio-Cortez – e il paternalismo e il maternalismo di Joe Biden e di Kamala Harris che puntano a un’azione di governo efficace, ma dal messaggio più conciso, e a volte necessariamente “segreto”. Tra chi crede che la politica sia una conversazione sincera con una base che le somiglia, e chi pensa che la politica sia la gestione di una conversazione con una base che non sempre sa qual è il suo bene.
Il ruolo e la carriera di Harris
Sarà soprattutto Kamala Harris la “poliziotta” a esercitare questa funzione, avendo una carica da consigliera ma non un ruolo formalmente decisionale. Spetta a lei impostare in un certo senso la linea narrativa di questa nuova amministrazione. La coalizione governa, e lei dovrà raccontare come governa. La sua elezione è epica, storica: è la prima donna nera e asiatica a essere eletta alla vicepresidenza, la prima donna a essere eletta alla vicepresidenza in generale. E questa è una conquista: ma proprio per rendere onore a una conquista, anche alla luce di un’eventuale candidatura presidenziale, Harris va riconosciuta per chi è e per com’è arrivata a quella posizione. C’è un’America che gliel’ha reso possibile e che lo renderà fattibile per un numero crescente di donne in futuro grazie al loro attivismo, ma c’è anche un’America che lei ha scelto, per renderlo possibile: un’America democratica ma non progressista. Un’America che a volte esclude più di quanto includa.
L’elezione a una carica governativa non è una chiamata messianica, non è qualcosa che fa di lei la chosen one, ma il risultato di una serie di forze che Harris ha messo in campo nel corso della sua carriera: e come quelle di Joe Biden – l’uomo che ha votato contro la prima guerra in Iraq e a favore della seconda, l’uomo che ha approvato tagli alla sanità e sostenuto compagnie assicurative private e ora si ritrova a gestire una crisi sanitaria che chiede una riforma assoluta – si tratta di forze molto discontinue.
Nei suoi anni da procuratrice distrettuale e procuratrice generale della California, Harris ha alternato dure campagne contro i crimini minori che hanno fatto aumentare le condanne per spaccio e aumentato la popolazione nera in carcere, ha evitato di prendere posizione su alcuni delitti della polizia, mentre in altre circostanze si è battuta per una riforma delle forze dell’ordine e ha promosso azioni attive contro i crimini d’odio. Promulga un forte messaggio femminista, ma il suo approccio alla comunità transgender in regime di detenzione è stato fortemente discriminante.
Una volta liberati dal mostro, si deve arrivare al confronto con un male più endemico e ingestibile
Nessuna carriera politica è indenne da ripensamenti, ed è abbastanza disonesto chiedere a Harris di essere all’altezza di standard di coerenza che i suoi colleghi non hanno: ma nell’entusiasmo della sua elezione, questa carriera non va dimenticata. È quella che, insieme alla sua ambizione e alla sua storia, l’ha portata lì. Quando nel suo primo discorso da vicepresidente ha usato la parola possibilità, rivolgendosi a tutte le bambine che un giorno governeranno, Harris ha usato una parola bellissima, di un’apertura infinita: la parola possibilità non indica solo la capacità e il diritto di occupare un posto in un sistema, ma anche la facoltà di occupare quel posto nella maniera che si vuole, che si desidera. Un giorno quelle bambine arriveranno a governare e lo faranno nel modo che crederanno sia giusto. E la possibilità di Kamala Harris, il posto che ha scelto, è proprio questo. Un posto di mediazione, non di rivoluzione. Un posto di compromesso, e a volte di discriminazione. Non tutti i desideri tendono nella stessa direzione, non tutte le idee di giustizie si somigliano, ma convivono tutte, appunto, in un orizzonte di possibilità.
Queste puntualizzazioni non servono a fiaccare lo spirito, a interrompere le danze e a promuovere la retorica puerile del “tanto tutto è uguale”. Gli ultimi quattro anni negli Stati Uniti hanno dimostrato che non è tutto uguale: sono morte molte più persone che “dovevano” morire perché non è tutto uguale. Sono stati rinchiusi dei bambini nei centri di espulsione perché non è tutto uguale, sono stati assassinati centinaia di uomini e donne su base razziale perché non è tutto uguale, e proprio su questi fronti Biden e Harris dovranno agire con una fermezza e una trasparenza senza precedenti.
L’esercizio critico è funzionale a una pressione, a una partecipazione e a uno scrutinio attento che mettono Biden e Harris nella posizione in cui devono stare: non quella di leader carismatici destinati a salvare una nazione, ma quella di due lavoratori sottoposti a un bilancio continuo del loro fare, al di là dei loro discorsi e dei cerimoniali e di tutto ciò che viene considerato inspiring. (Anzi, al primo accenno di politica inspiring e non fattuale, è ragionevole pensare che si troveranno tutta la base di Black live matters sotto casa).
Poche ore dopo la vittoria di Joe Biden, ho risposto al citofono e ho sentito un urlo euforico e liberatorio, in cui sono riuscita a distinguere le parole “Ce l’abbiamo fatta”. Ho riso con un sollievo che non provavo da tempo, ed è il sentimento principale che associo a questa vittoria presidenziale. Mi è piaciuto l’uso della forma plurale, l’emozione che tradiva. Mi è piaciuta la gioia che nasce da un’idea di collettività che si impone su tutto il resto. Poi mi sono chiesta chi ce l’ha fatta, e chi no, neanche questa volta (in questi giorni nella California amata dai democratici è passata la Proposition 22 che renderà i lavoratori della gig economy ancora più vulnerabili e senza reti di tutela); mi sono chiesta chi dovrà essere messo nelle condizioni di celebrare insieme agli altri, e ho capito qual è il senso doveroso di certe puntualizzazioni da parte di chi negli Stati Uniti ci vive e può tradurle in forme di azione. Non servono a sminuire la festa, ma a far sì che questa gioia, questa furia che esplode per un avvicendamento politico, diventi anche una responsabilità. A far sì che dopo l’esorcismo il corpo non si calmi troppo, e tenga insieme la rabbia e la festa.
È l’unica soluzione che mi viene in mente per evitare che questo non sia solo l’episodio riuscito di una stagione, ma il preludio di come andrà a finire un’intera serie.
Una volta liberati dal mostro, si deve arrivare al confronto con un male più endemico e ingestibile, quel mago di Oz di tante terre di mezzo d’America, in modo che resti sbaragliato da una popolazione di cui non prevede più il coraggio, né le mosse. Una popolazione che non esiste ancora in forma ottimale, ma quasi, e che – come in tutte le saghe epiche che mirano alla sua sconfitta – questo male strutturale inizia a chiamarlo per nome.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it