Il centralismo democratico era quel principio per cui, nel partito comunista, la discussione (a porte chiuse) era libera ma le decisioni prese dopo la discussione obbligavano tutti. Nella pratica, pochi decidevano (il comitato centrale) e gli altri (le sezioni, i parlamentari, gli eletti negli enti locali, gli iscritti) si allineavano. Questo voleva anche dire che a parlare erano in pochi. In tv ci andava Berlinguer, e Berlinguer, dopo averla decisa insieme agli altri dirigenti, diceva qual era la linea del partito su qualsiasi cosa.

Era un modo, un modo intonato ai tempi. Poi i tempi sono cambiati e si sono moltiplicate soprattutto le sedi e le occasioni per parlare: radio, tv, giornali, internet. Così è probabile che anche adesso ci sia un “centro” che, più o meno, decide, o tenta di decidere. Ma quanto a parlare, quanto a dichiarare, vige soprattutto nel Pd una libertà così spensierata che ci si domanda se non sia il caso ormai di limitarla, o se non altro – nell’interesse del partito e di tutti – di organizzarla.

Organizzarla significa per esempio sconsigliare ai propri parlamentari di rispondere alle domande delle Iene. Se si avvicina una vestita di nero che, [come qui][1],

domanda “Che cos’era la perestrojka?”, è meglio mandarla a quel paese piuttosto che rispondere, come fa l’onorevole Crimì, che «penso che è un evento negativo» databile ai tempi di Stalin. Perché non fa una bella impressione.

Organizzarla significa anche decidere chi va in televisione, e a parlare di che cosa. Per buone ragioni storiche, il Pd abbonda di intellettuali, cioè di laureati in filosofia, lettere, storia, Dams, scienze politiche, scienze della comunicazione che sanno tante cose ma non sanno niente di economia, e per esempio non sanno leggere un bilancio. Ma buona parte della discussione politica oggi verte sull’economia, ed è un po’ patetico ascoltare o vedere gli intellettuali che ne parlano mescolando le solite dieci parole raccattate sui giornali al mattino (crisi,

*credit crunch, spread *eccetera). È davvero impossibile rispondere “è un problema sul quale non sono abbastanza preparato per dare un’opinione”? O tacere?

Bisognerebbe poi che un comitato centrale stabilisse anche in che modo si va in televisione, nel senso che non bisogna certamente vestirsi come Lord Brummel, ma una camicia decente ci vuole, e i calzini lunghi anche, e magari la cravatta. L’occhio vuole la sua parte, in tv, e insomma Fassina non può vestirsi come se andasse alla riunione di condominio:

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Se chiama La Zanzara, poi, è meglio negarsi. Perché i conduttori della Zanzara (Radio 24 ogni giorno dalle 18.30 alle 21) Cruciani e Parenzo sono delle carogne, e naturalmente uno li ascolta proprio perché sono delle carogne, per il modo in cui umiliano gli ascoltatori e i parlamentari, soprattutto se i parlamentari non sono delle carogne ma degli sprovveduti. È giusto porsi il problema delle condizioni di vita dei suini, ma fare una riunione sul tema al Senato e poi raccontarla alla Zanzara (senatrice Amati, un paio di settimane fa) non è una mossa saggia, perché Cruciani è uno specialista nel ridicolizzare anche delle buone cause. Ed è legittimo alzarsi dall’aula quando il proprio partito vota no alla sfiducia ad Alfano, ma raccontarlo alla Zanzara, nei termini estorti da Cruciani (senatrice Ricchiuti: “Bisogna spazzare via questa classe dirigente”), dà l’impressione che il partito sia l’incarnazione del Male: il che, in fin dei conti, non è (ma se lo è si butta via la tessera, non ci si sta dentro).

Organizzare la libertà dei parlamentari è un problema anche per il Pdl e per l’M5s? Molto meno, perché nel Pdl parla Berlusconi e nell’M5s parla Grillo, e chi esce dalla linea esce dal partito o dal movimento. Ed è soprattutto un problema del Pd perché il Pd è o dovrebbe essere un vero partito: e uno vota un partito perché suppone che per ogni singolo problema (scuola, esteri, immigrazione, lavoro) ci sia qualcuno che studia e propone, e il partito accetta o respinge la proposta. Il mondo è complicato, ci vogliono delle mediazioni: se le mediazioni saltano e ognuno spara la sua cazzata, meglio votare l’Uomo Forte, che almeno si sa cosa pensa, o non votare.

Come fare? Come coordinare la libertà di parola degli eletti? Ci vuole Malcolm Tucker.

Quand’era primo ministro, Tony Blair reclutò un direttore delle comunicazioni che si chiamava Alastair Campbell. Non una persona simpatica ma, almeno per un po’, una persona efficace: era lui che decideva chi è quando, tra i ministri, doveva parlare. Poi ci sono state le bugie sulle armi di distruzione di massa in Iraq, e Campbell ha dovuto dimettersi. Ma qualche anno dopo, ispirandosi a Campbell, lo sceneggiatore e regista inglese Armando Iannucci ha inventato il personaggio di Malcolm Tucker (il supremo Peter Capaldi) creandogli attorno una serie tv dal titolo The Thick of It (qualcosa come “Nel centro delle cose”) Malcolm Tucker, come Campbell, è lo spin doctor del primo ministro inglese. Svolge il suo ruolo con una certa decisione – una specie di Tony Soprano a Downing Street – e con un linguaggio che non si saprebbe raccomandare fino in fondo – ma almeno un po’ sì. Qui (con sottotitoli in inglese) un esempio per farsi un’idea di quanto meglio potrebbero andare le cose con Malcolm Tucker a capo della comunicazione Pd:

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