Tommaso Campanella nasce nel 1568 a Stilo, in provincia di Reggio Calabria, da genitori poverissimi e analfabeti. Dice la leggenda che, non potendo pagarsi gli studi, è solito origliare alla finestra della scuola e, quando l’insegnante fa una domanda a cui la classe non sa rispondere, si affaccia esclamando: “Volete che la dicess’io?”. Quando ha tredici anni, la famiglia si trasferisce nella vicina Stignano. L’anno seguente entra nell’ordine domenicano, il che gli consente di perfezionare la sua istruzione: va a Seminara per ascoltare le lezioni su Aristotele del medico Francesco Sopravia, poi a studiare teologia a Cosenza, dove scopre l’opera dell’altro grande calabrese Bernardino Telesio. Scoperta insieme fausta e infausta, perché, sospettandolo di eresia, i suoi superiori lo relegano nel convento di Altomonte, una sessantina di chilometri più a nord. Campanella ha vent’anni.

Perciò noi andiamo a Stilo, Stignano, Seminara, Cosenza, Altomonte.

Poche parole sul noi. Siamo: Laura, Giuseppe, Sante ed io. Altri dovevano venire ma non sono venuti (uno è a Losanna, dove sta nevicando; un’altra l’abbiamo sentita due volte, in due giorni diversi, ed era sempre prigioniera del Grande raccordo anulare). Laura sa di storia dell’arte: tutte le cose che dirò a proposito di sculture, pitture e chiese in realtà le ha dette lei, io ripeto. Giuseppe e Sante fanno i restauratori e sono calabresi. Queste due qualità, non rarissime se prese separatamente ma difficili da trovare insieme, si riveleranno fondamentali per la buona riuscita del viaggio: perché Giuseppe e Sante conoscono, in una zona dove conoscere – che è sempre importante – è importantissimo.

Ancora una cosa sul noi. Una delle cose belle dell’università è che ci si incontrano delle persone. Probabilmente questa è la cosa in assoluto più bella dell’università, nel senso che nessuno va, o nessuno dovrebbe andare all’università per imparare tutto su Machiavelli o sul diritto pubblico o sulla meccanica quantistica, ma semmai per incontrare altra gente che, come lui, si interessa a Machiavelli, al diritto pubblico e alla meccanica quantistica. Direi anzi che l’università è bella soprattutto quando dà a chi vuole studiare Machiavelli non solo la possibilità di farlo in compagnia di altri interessati a Machiavelli, ma anche la possibilità di chiacchierare ogni tanto con chi invece passa il suo tempo a studiare il diritto pubblico o la meccanica quantistica (doppia possibilità che l’università italiana dà di rado: è tutto un po’ a compartimenti stagni, ed è un peccato, anzi, un grave errore).

Ma divago. Quello che volevo dire è che la regola non vale soltanto per gli studenti ma anche per i docenti, e che l’aspetto forse più piacevole della professione è appunto questo: si conoscono delle persone, dei colleghi esperti di Machiavelli, diritto pubblico, meccanica quantistica. E di storia dell’arte. Io ho conosciuto le mie due guide calabresi, Sante e Giuseppe, durante un “viaggio d’istruzione” (aka “gita al mare”) organizzato dai miei colleghi dell’università di Trento a Malta. Sante e Giuseppe sono infatti i restauratori italiani che negli ultimi vent’anni hanno pulito, recuperato, rimesso in sesto un’enorme quantità di dipinti e sculture maltesi, soprattutto le tele e gli affreschi di Mattia Preti che riempiono le chiese dell’isola, in particolare la magnifica co-cattedrale di San Giovanni Battista alla Valletta (qui li ho incontrati la prima volta, sui ponteggi della controfacciata, le mani sporche di calcina come Mastro-don Gesualdo; ma quando ho stretto le loro mani sporche per me erano già aureolati di grazia e mistero, perché alla libreria dell’aeroporto avevo visto la vetrina dei libri più venduti, e al quarto posto c’era Cinquanta macchie di nero, al terzo posto Cinquanta macchie di rosso, al secondo posto Cinquanta macchie di grigio, al primo posto Melchiorre Cafà insigne modellatore, di Sante Guido e Giuseppe Mantella, Rubbettino Editore).

In questi due decenni Sante e Giuseppe hanno vissuto tra Malta, Roma – Sante lavora soprattutto ai Musei vaticani – e la Calabria. Ma la Calabria resta la casa-base, e precisamente Isca Marina, una cinquantina di chilometri a sud di Catanzaro. A Isca Marina, oltre a una bella casa di campagna, c’è il loro laboratorio di restauro:

Il giorno in cui lo visito ci trovo una loro collaboratrice, Laura, che è, imparo, “la più brava restauratrice d’Italia: ha fatto due Caravaggio, la Santa Petronilla del Guercino”, e adesso è pacificamente impegnata su una catasta di teleri calabresi, teleri che per il novanta percento sono delle croste, per il dieci accettabili. La regione paga (poco) per il restauro delle opere che si trovano sparse nelle mille chiese calabresi, e il laboratorio Mantella ne riceve periodicamente una quota: si fa qualcosa “per il territorio” e si fa quadrare il bilancio. È lavoro di routine, e che non valga sempre la pena lo capisce anche l’osservatore inesperto:

Ma Laura sembra serena: mescola i colori, raschia, sente musica nelle cuffie, beve latte, si nutre quasi solo di cornflakes, preoccupando molto i colleghi e amici del laboratorio, e soprattutto le famiglie degli amici, che come tutti i calabresi hanno un’idea precisa, un’idea aggressiva su come e quanto bisogna nutrirsi. A commento di questa magnifica dedizione, cito a Laura la mitica risposta di Bjorn Borg a una domanda di Roberto Gervaso: “La impegna di più un set con Connors o un set con McEnroe? – M’impegna tutto, anche un set con mio nonno”. Laura sottoscrive.

Per arrivare sulla costa ionica ci sarebbe l’aeroporto di Crotone, ma maggio è bassa stagione, e ci atterra un aereo ogni morte di papa, perciò Laura e io siamo atterrati a Lamezia Terme, e Sante e Giuseppe sono venuti a prenderci con una 4x4 un po’ scassata che si rivelerà strategica nei molti tratti di sterrato che percorreremo alla ricerca delle pievi di campagna, delle torri saracene, delle spiaggette isolate. L’autostrada che collega Lamezia a Palmi è la Salerno-Reggio, ma non è la Salerno-Reggio che ricordavo dalle discese estive Torino-Messina di quand’ero piccolo, sulla Fiat 131 dei miei: è successo qualcosa, la ditta appaltatrice ha fatto bene il suo lavoro e adesso – se non m’inganna l’eccitazione della gita, il sole ancora fresco di maggio – è un tratto autostradale addirittura bello; e la campagna tutto intorno è – non c’è proprio altra parola per dirlo – ubertosa.

A Palmi lasciamo l’autostrada e prendiamo la statale che porta a Gerace, e dopo una decina di chilometri deviamo per Seminara.

Seminara ha un piccolo passato glorioso (fondazione bizantina, sede vescovile dal 951, mura normanne, 33 chiese, 8 monasteri), ma ora come ora è un po’ malmessa. Di ritorno dalla presa di Tunisi, il 3 novembre 1535, Carlo V fece addirittura una deviazione per visitarla, e nel palazzetto del comune ci sono ancora dei bassorilievi cinquecenteschi, anche loro un po’ malandati, che commemorano il passaggio dell’imperatore. Un’impiegata molto gentile ci dà un librettino su Seminara. Una città museo, fatto con molta buona volontà, e che dà il giusto rilievo all’attrazione principale della cittadina, la statua lignea detta “Madonna dei poveri”.

La Madonna risale forse al duecento, forse al trecento, anche se le leggende spostano il suo ritrovamento ancora più indietro, al decimo secolo, e in origine non era nera ma dorata: poi, come accade, la copertura è svanita ed è rimasto questo colore bruciaticcio. Come tanti altri oggetti di culto, la statua è al centro di mitologie inattendibili che oggi funzionano soprattutto come volano per il turismo agostano: si arriva in* shorts* e infradito, si prega, ci si raccomanda, si torna in spiaggia. A Sante piace particolarmente il fatto che l’ottimo vescovo Luciano Bux l’abbia fatta restaurare nel 2010, quando nella zona di Rosarno i veri poveri, gli immigrati africani che raccoglievano pomodori, si sono ribellati ai caporali: con – qualcuno se lo ricorderà – conseguente caccia al negro, visite di tv e giornali, oblio.

Madonne a parte, Seminara ha la non piccola gloria di aver dato i natali a Barlaam, il monaco basiliano amico e maestro di Petrarca e vescovo di Gerace (1290-1348). Eccolo qui in una statua commemorativa alle porte del paese:

Allievo di Barlaam, e anche lui seminarese, fu Leonzio Pilato, maestro di Boccaccio, traduttore dell’Odissea e dell’Iliade. Anche a lui Seminara ha dedicato una statua, che però noi non vediamo perché dobbiamo fare shopping. Un negozio su tre vende ceramiche artistiche di squisita fattura, alcune utili (vasi, stoviglie), altre solo decorative. Laura è orientata sulle ceramiche decorative e sa quello che cerca, perché lo cerca da tutta una vita: un Istrice. Solo che, come accade, l’embarras de richesses prolunga all’infinito la ricerca dell’Istrice Perfetto, Sante e Giuseppe conoscono un artigiano che fa cose bellissime per niente care, solo che il laboratorio dell’artigiano non si trova, e quando si trova si trova chiuso. Ripartiamo due ore dopo senza Istrice.

(Fine prima parte)

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