Con l’arrivo della seconda bambina sto pensando di mettermi a lavorare da casa. Ma se poi me ne pento? –Tiziana

La questione mi riguarda personalmente, perché io lavoro da casa. Anzi, più precisamente lavoro dal bagno. Da quel minuscolo bagno con solo un gabinetto e un lavandino che si trova all’ingresso di molti appartamenti svizzeri. Qui lo chiamano wc visiteurs, io lo chiamo il mio ufficio. Perché è lì che finisco per rintanarmi a scrivere dopo aver migrato di stanza in stanza rincorso dai miei figli. È soprattutto il più piccolo, sedici mesi, a non lasciarmi tregua.

Ovviamente è entrato in competizione con il mio computer e ora il suo scopo è riuscire a prendermelo dalle mani e scaraventarlo per terra (ma di solito il massimo che riesce a fare è inondare la tastiera di bava). Così io mi trovo a fare il genitore con una mano e il giornalista con l’altra. Giro il sugo con una mano e clicco sui tasti con l’altra, il tutto con un bambolotto aggrappato ai polpacci che mi fissa con occhi supplichevoli.

Lavorare da casa è meno utile di quanto si creda. Soprattutto per i figli, perché l’illusione di passare molto tempo insieme può nascondere il fatto che sia un tempo di pessima qualità. Due ore al giorno di coccole e attenzioni valgono più di dodici ore di infastidita insofferenza. E qui chiudo, perché ho bisogno di uscire da questo bagnetto senza finestra e andare a prendere un po’ d’aria.

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