“I maschi disegnati sui metrò confondono le linee di Miró”, cantava nel 1987 una Gianna Nannini tanto ispirata da farci vedere come un graffito osceno, un cazzo disegnato per strada, possa ricordare le forme sinuose e giocose di Joan Miró.

I ragazzini hanno sempre disegnato cazzi un po’ ovunque. Da che mondo è mondo. Sui muri della classe, sugli sciacquoni dei bagni, sulle paline delle fermate degli autobus. I più coraggiosi li incidevano sulla cattedra e i più stronzi sui quaderni e i diari delle ragazze, come in una prima, ingenua prova generale di molestia. I maschi, ovviamente. Le femmine non disegnano fiche in giro. Se una ragazzina disegnasse una fica sul diario di un compagno probabilmente sarebbe spedita da uno psicologo.

L’artista francese Annette Messager, a 73 anni, è invece una ragazzina che disegna fiche sui muri. Ne disegna tante, colorate, piene di dettagli e una diversa dall’altra. Alcune delle sue fiche sono minacciose, altre sono delicate come dei fiorellini. Messaggera è il titolo della grande personale che Messager ha appena allestito all’accademia di Francia a villa Medici, a Roma, aperta fino al 23 aprile.

È una mostra-percorso che si snoda lungo le sale cinquecentesche di Villa Medici, fino ai giardini e giù, in fondo, fino allo studiolo che fu di Balthus (1908-2011), pittore surrealista e direttore dell’accademia di Francia dal 1961 al 1977.
Proprio su una grande parete dello studiolo, Annette Messager ha dipinto le sue fiche, Les utérus fleurissent chez Balthus, uteri in fiore che lei dedica a Balthus, il pittore famoso per le sue bambine innocenti in pose che di innocente hanno poco.

Annette Messager, Histoire des traversine, 2004-2005. (Giorgio Benni)

Un ragazzino che disegna un cazzo su un muro lo fa per ridere, per provocare e lo fa anche per dire con orgoglio: “Ehi, io sono un maschio. Sono troppo grande per tirarlo fuori e fartelo vedere ma te lo disegno”. Alle bambine questo orgoglio è sempre stato negato. E Messager, con i suoi colori e la gioia un po’ febbrile del suo tratto, sembra rivendicarlo.

I suoi uteri fioriti hanno qualcosa di lezioso e decorativo, sembrano stampe per un tessuto o per una carta da parati. Prima di capire che abbiamo davanti una parete di fiche (con tutto quello che comportano), il riflesso condizionato che ci dettano gli stereotipi di genere è quello di apprezzare “il lavoretto” dell’artista: più un’opera di pazienza, tipo l’uncinetto o la ceramica, che il grande gesto virile e vitalistico di un Michelangelo o di un Jackson Pollock. Le sue vagine ricordano certi pattern di Sonia Delaunay che si stancano di stare fermi e diventano macchie di Rorschach.

E il gioco di Messager è proprio questo: i suoi lavori, sempre realizzati con materiali e tecniche considerate tradizionalmente femminili o infantili (guanti, bambole, giocattoli, tessuti, piume, capelli, acquarelli, fotografie), ti portano per mano, dapprima gentilmente e poi con un bello strattone, in un mondo onirico e minaccioso. Il mondo del corpo, con i suoi cicli, i suoi umori e i suoi desideri. E il suo gesto di riappropriazione della sessualità attraverso l’arte è femminista e molto vitalistico.

A sinistra: La fontaine aux serpents, 2016. A destra: La danse des cheveux avec Mercure, 2016. (Giorgio Benni)

I suoi tubi-cuscini, quasi budella attorcigliate, non hanno l’oscena minacciosità di lavori realizzati con tecniche analoghe da Louise Bourgeois, ma ti trascinano in un inquietante mondo in cui l’organico, la sporcizia e gli odori che cerchiamo di lavarci via ogni mattina, ci circondano da ogni parte.

Organici sono gli animali impagliati appesi sulla volta dello scalone: piume di uccello, peli, capelli, ma anche il peluche sporco di orsacchiotti che ti guardano dall’alto, grotteschi e ghignanti. La grande matassa di capelli e di tulle agitata da un ventilatore (Le tutu échévelé), non ha niente di grazioso: ci ricorda lo schifo di trovare un capello nel piatto o un pelo nelle lenzuola candide di un albergo. È un’arte col nero sotto le unghie, quella di Annette Messager, è un’arte che ci costringe a riflettere su quante cose fuori del nostro controllo succedono nel nostro corpo di femmine, di maschi o di quello che siamo. Un corpo, sembra dirci l’artista, sempre in cambiamento, in evoluzione, un corpo senza confini che non conosce né norma né normalità.

La statua di Hermes che svetta fuori della loggia che dà sul giardino di villa Medici porta un messaggio: è l’ennesima matassa di capelli che penzola come un trofeo, tra il macabro e il ridicolo. Davanti a Hermes e al suo scalpo, la fontana è stata riempita di serpenti di gomma. Gli zampilli e i giochi d’acqua sono stati sostituiti da una massa di rettili attorcigliati. Altri capelli, ma stavolta sono quelli di Medusa. La figura mitologica, ovviamente una femmina, che unisce il bello e il repellente, che pietrifica gli uomini e che, secondo il critico francese Jean Clair, diventa una metafora dell’arte moderna stessa, della sua capacità di arrivare al sublime e al terribile senza preoccuparsi del bello. O del giusto. Proprio come le fiche colorate, le matite-artiglio o i grotteschi giocattoli impagliati di Annette Messager.

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