È stato il Sanremo di Achille Lauro. Lo dicono tutti. Eppure lui non ha fatto niente di speciale, si è limitato a fare il suo mestiere: la pop star. In una scena musicale mainstream, dopata da vent’anni di talent show e ancora stordita dalla crisi discografica globale, quello della pop star è diventato un mestiere antico e dimenticato, come quello dell’impagliatore di sedie o della ricamatrice di asole.

Lauro ha fatto quello che le pop star fanno fin dagli anni cinquanta: usare il mezzo televisivo anziché esserne usati. Ha sfruttato al massimo le quattro serate di Sanremo per esibire la sua estetica e raccontare la storia che voleva raccontare. Lauro e i suoi sanno che l’unico mezzo per usare la tv senza esserne fagocitati è l’artificio. La finzione, il teatro, il glamour sono una corazza per non far trapelare nulla di quella “spontaneità” e “verità” che sono la linfa vitale della mefitica cultura dei talent show. Lauro ha semplicemente mostrato a una generazione di adolescenti e di ventenni, venuta su a Grande Fratello e Amici di Maria de Filippi, che la pop star può anche non essere un cane ammaestrato, un piazzista di felpe o di pandori o un caso umano da lacrime a comando. Ha dimostrato anche che un artista italiano può permettersi il lusso di non usare l’urticante simpatia dell’animatore da villaggio turistico o l’untuosità del capo scout più grande che sa suonare la chitarra.

Pensiamo all’origine della parola glamour. Viene dall’antico scozzese glamer che vuol dire rumore, ma anche incantesimo, malìa, miraggio. Il glamer è un incanto che un mago o una strega lanciano su un mortale per farlo sembrare più potente, più bello, più amabile. È una magia d’amore che lega due persone o un incantesimo di guerra che fa apparire un soldato nella sua armatura fulgido e invincibile. Il glamour è un inganno, un’illusione, un artificio.

Costruire un personaggio pop
Achille Lauro ha rovesciato sul pubblico di Sanremo secchiate di glamour, di polvere magica che forse è rimasta ancora attaccata ai cappotti, alle borsette e ai colli di pelliccia dei signori e delle signore appisolati sulle poltrone dell’Ariston. Come quando torni da una seratona e ti ritrovi il glitter anche nelle mutande.

Achille Lauro è costruito? Ma certo che è costruito. Ed è una fortuna che la nobile e antica arte di costruire un personaggio pop non si sia persa come lacrime da reality nella pioggia.

La pop star esiste in una zona grigia tra l’artista, il fenomeno da baraccone e il mistico carismatico. E il suo carburante è ovviamente il sesso: quel richiamo primario, quel magnetismo irresistibile che ci fa innamorare di un artista e ci fa rispondere in modo ormonale e irrazionale alla sua musica. E Lauro indubbiamente è capace di lanciare un potente incantesimo d’amore sul suo pubblico.

Ha indossato diversi costumi a Sanremo, ha abitato quattro diversi personaggi e, per usare una categoria inventata dalla critica d’arte Camille Paglia, ha proiettato quattro diverse sexual personae, quattro diverse maschere sessuali, dal palco del teatro Ariston.

La prima sera è stato Francesco d’Assisi:

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È entrato coperto da un mantello ricamato di Gucci e, finita l’intro della sua canzone, si è spogliato per mostrasi quasi nudo, coperto da una tutina semitrasparente con qualche lustrino qua e là. La scena della rinuncia ai beni materiali di san Francesco non era stata esattamente immaginata così da Giotto; Lauro la vira in chiave ultra-camp. Nella sua esibizione convivono il quasi strip-tease del famigerato Fratello sole, sorella luna di Franco Zeffirelli (una scena soft porno gay abilmente spacciata in tutti i cinema parrocchiali) e Like a prayer di Madonna, con i suoi santi sexy e i suoi pruriti religiosi. Per fortuna la cappa di Lauro non si è trasformata, come è successo a Madonna ai Brit Awards del 2015, in una trappola infernale.

Giocare con l’iconografia religiosa è uno dei classici artifici del pop. Il pubblico di una pop star risponde sempre a un invito evangelico, a un irresistibile “Chi mi ama mi segua”.

Poi c’è la canzone. Me ne frego, nonostante un incedere rock che non può non ricordare il Vasco Rossi di Vado al massimo o di Vita spericolata, capovolge qualunque cliché vitalistico o testosteronico per raccontare una storia di fragilità, di estrema debolezza e di dipendenza. L’espressione “me ne frego” perde qualsiasi connotato egoistico o mussoliniano, e diventa il grido estremo di chi si sta arrendendo a un amore malato, totalizzante e annichilente. Non è un “me ne frego” di voi, è un “me ne frego” di un me stesso ormai in via di dissoluzione.

Per la seconda esibizione, quella dedicata alle cover, Lauro è diventato David Bowie:

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In molti hanno detto che copiava il duca bianco e lui si è presentato in perfetto cosplay. Ha cantato Gli uomini non cambiano di Mia Martini in duetto con Annalisa, una reduce di Maria de Filippi. La canzone è la b-side ideale di Me ne frego. È un’altra resa incondizionata all’inevitabile. Stavolta dal punto di vista di una donna ferita dalla vita. Lauro canta la prima strofa senza cambiarne il genere: “Sono stata anch’io bambina, di mio padre innamorata”. Chiunque abbia letto lo scombiccherato libro autobiografico di Achille Lauro, Sono io Amleto (Rizzoli), conosce la sua difficile situazione familiare e non può non rimanere colpito dalla spietatezza con cui fa sue quelle parole. Come tutte le vere pop star Achille Lauro si presenta al giudizio del pubblico con la sua agiografia già scritta. Lui è su quel palco non per la gara, ma per esibire il suo personaggio davanti alla platea più ampia possibile.

In una intervista del 2003 Robert Smith dei Cure ricordava la prima volta che aveva visto David Bowie in televisione: “Era palesemente diverso da tutto il resto, e tutta la gente della mia età ricorda quando ha suonato Starman a Top of the Pops. La scuola era divisa tra quelli che pensavano che fosse solo un frocio e quelli che lo ritenevano un genio. Io ho subito pensato: ecco, è lui. Questo è l’uomo che aspettavo. Ha mostrato che potevi fare le cose a modo tuo, definire il tuo genere e non preoccuparti di cosa facciano gli altri. E penso che sia questa la natura del vero artista”.

Lauro fa tutto quello che può per ricollegarsi a questa tradizione, al carisma delle grandi pop star: dal rap e dalla trap è passato alla sua forma ibrida di musica pop, si sforza di creare un suo linguaggio, anche teatrale e visivo, e a Sanremo ha avuto il coraggio, forse la hybris, di volare più in alto e presentarsi come artista e performer totale.

La terza sera Achille Lauro si è travestito da Marchesa Casati, nobildonna della belle époque, agitatrice culturale, mecenate e per sua stessa definizione “opera d’arte vivente”.

Achille Lauro al festival di Sanremo, 7 febbraio 2020. (Daniele Venturelli, Getty Images)

Il pittore ferrarese Giovanni Boldini ha dipinto un suo memorabile ritratto all’inizio del novecento: con pennellate sferzanti, ai limiti dell’astrattismo, la rappresenta coperta di piume di pavone, come interrotta da un osservatore esterno nel mezzo di una fantasia a occhi aperti o di una danza segreta. Luisa Casati era famosa per i suoi abiti stravaganti e per le sue feste, è stata in qualche modo un’antesignana della club culture e, molto prima di Andy Warhol, una catalizzatrice di arte, eccessi e mondanità. Per Lauro è stata la prima vera esibizione in drag di Sanremo anche se sembrava più un incrocio tra il Marilyn Manson di Mechanical animals e il Montezuma di una qualche opera barocca.

La quarta e ultima sera chiude il cerchio, e al suo drag Lauro aggiunge la parola queen. Arriva sul palco vestito da Elisabetta I d’Inghilterra, la regina che tra cinque e seicento sconfisse l’invincibile armata spagnola. Sotto una crinolina trasparente ha però pantaloni e scarpe rosso ciliegia che hanno ancora un sapore glam rock anni settanta. È la più androgina e politica delle creature che evoca sul palco. L’accompagnava la leggenda che fosse vergine e che avesse rinunciato alla femminilità per il potere. Si tramanda che nel 1588, nel suo famoso discorso alla truppe presso Tilbury disse:

So che ho il corpo debole e fragile di una donna; ma ho il cuore e lo stomaco di un re, e di un re d’Inghilterra anche.

Cuore e stomaco. Il coraggio e la voracità. Le due caratteristiche maschili per eccellenza. La storica femminista Mary Beard, in Donne e potere, scrive che molto probabilmente quella frase non è mai stata pronunciata da Elisabetta ed è un falso che le è stato attribuito, a posteriori, da un commentatore poco affidabile. Per Beard è proprio la non autenticità a rendere interessante questo passaggio: “Il bel colpo di scena è che è un commentatore maschio a mettere in bocca a Elisabetta questo vanto (o questa confessione) di androginia”.

Come Elisabetta si traveste da uomo per gestire il potere, così Lauro si traveste da donna per trasformarsi in oggetto di desiderio e di consumo per il suo pubblico. È solo alla quarta e ultima sera che l’artista svela il suo gioco di maschere sessuali e il suo uso pop del teatro e del travestimento. Nel Sanremo dei due passi indietro, delle fidanzate degli sportivi, dei monologhi infiniti, nel Sanremo che rende giustamente omaggio alla gayezza orgogliosa ma vagamente eteronormativa di Tiziano Ferro, Achille Lauro mostra che lo spettro delle possibilità è molto più ampio. All’interno dell’arcobaleno ci sono anche la queerness, l’indefinitezza, la non binarietà, la bisessualità, la transessualità, la sacrosanta possibilità che abbiamo tutti di non sentirci incatenati a quello che abbiamo nelle mutande o a quello che la società ha deciso che siamo.

Quella che è stata letta solo come effeminatezza, come provocazione gender (sic), come sberleffo, è in realtà un catalizzatore importante della performance di una pop star. È l’esternazione della necessaria consapevolezza della propria oggettificazione che ha un artista in scena. Con una canzone che parla di passività di fronte a forze centrifughe irresistibili, Achille Lauro mette in scena la sua impotenza, la dissoluzione del proprio io e il suo status di merce. E riesce a trasformare questa consapevolezza in un’arma. Non siamo abituati a vedere, su un palco per famiglie come quello di Sanremo, un giovane uomo che esibisce il proprio corpo e la propria bellezza in modo che è allo stesso tempo arrendevole e provocatorio. Lauro fa quello che le pop star hanno sempre fatto: si danno in pasto per tre minuti allo sguardo rapace del pubblico.

Le donne sono abituate da secoli a offrirsi a quel tipo di sguardo, un uomo che vuole giocare a questo gioco deve avere il coraggio dell’androginia, deve offrire l’illusione di abitare corpi diversi. Per il tempo di una canzone Achille Lauro si fa penetrare da milioni di occhi e possedere da ogni tipo di fantasia. Il travestimento è un artificio teatrale vecchio come il mondo e fa parte da sempre dell’armamentario di una pop star. È vero quello che hanno detto in molti: Bowie lo ha già fatto e Renato Zero lo ha già fatto in Italia. E anche Elton John, Prince, Boy George, Alberto Camerini, Patty Pravo, Amanda Lear, Rettore… lo ha fatto anche Little Richard, l’inventore del rock ’n’ roll. E prima di lui c’erano il vaudeville e il cabaret. Achille Lauro lo ha fatto nel 2020, in una periferia culturale come l’Italia, dal palcoscenico più nazionalpopolare che ci sia; un palcoscenico che mentre lui si faceva truccare da Elisabetta Tudor veniva battezzato dalla banda dei carabinieri. E se c’è stato da qualche parte un quattordicenne o una quattordicenne che vedendolo in tv ha detto: “Ecco. È lui”, Achille Lauro e il pop avranno vinto una battaglia.

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