Nel Ramo d’oro, il grande saggio dell’antropologo scozzese James Frazer sull’interconnessione profonda tra religioni e pratiche magiche nel corso della storia, le pagine più suggestive sono dedicate al culto di Attis. Attis, un bellissimo giovane, servitore della grande madre Cibele, con il sacrificio e lo spargimento del suo sangue rende fertile la terra e nell’antichità viene ricordato con feste e danze in prossimità dell’equinozio di primavera. Il mito di Attis, nei secoli, si confonde con quello di Adone e più avanti s’innesta nella Pasqua ebraica e in quella cristiana. Un giovane che con il suo sangue bagna la terra e la rende fertile e che, sacrificando la sua carne (nella versione più antica e cruenta del mito è prevista anche la sua evirazione e quindi la castrazione rituale dei suoi sacerdoti), ridona la vita all’umanità affamata e stremata dall’inverno. È un’antica favola di morte simbolica e di salvifica resurrezione che ci raccontiamo, in forme diverse, dall’alba dei tempi per stringerci negli inverni freddi, certi che la primavera tornerà e la natura riprenderà il suo ciclo vitale.

Vernal equinox (equinozio di primavera) è il titolo dell’album di debutto del trombettista e compositore statunitense Jon Hassell (1937), un lavoro ai limiti dell’astrazione, che sfugge a qualunque classificazione e che forse proprio per questo ha una fortissima carica emotiva e, direi, rituale. Quello di Vernal equinox non è né jazz né ambient. Pur incorporando molti elementi di musica classica indiana e avvalendosi delle percussioni del brasiliano Naná Vasconcelos, non è musica etnica e anche se fa ampio uso di elettronica ha pochissimo a che vedere con le sperimentazioni della fine degli anni settanta. La sua tromba, sempre filtrata e arricchita dagli effetti, è il canto, la voce dell’aedo che ci guida attraverso diverse storie, mondi nuovi ma allo stesso tempo familiari: Hassell tentava da anni di usare il suo strumento per imitare le improvvisazioni vocali dei raga indiani. Vernal equinox ha la soprannaturale caratteristica di appartenerci fin dal primo ascolto: ci possiamo sentire il Miles Davis rarefatto di In a silent way o vederci certi colori del suo amico e collaboratore Brian Eno, ma in realtà è proprio l’originalità di questa strana musica, moderna e antica allo stesso tempo, a catturarci. C’è qualcosa di iniziatico e di esoterico in questa musica che Hassell stesso definiva “del quarto mondo”, c’è una specie di filo narrativo, di sapienza condivisa che scorre lungo queste tracce.

Durante le registrazioni in studio di New York, il suo vecchio, amatissimo cane stava morendo. “Mentre suonavo Blues nile, sotto l’effetto dei funghi magici, mi sembrava di parlare con lui”, ricorda il trombettista, “gli dicevo addio e il titolo del pezzo è nato così, lui mi appariva come un antico cane egiziano e io ero appunto blue, molto triste”. E il latrato del cane, guardiano dell’aldilà secondo gli egizi, torna nell’ultimo pezzo, Caracas night september 11, 1975: “Mi sono registrato da solo, sulla collina di Altamira. Ero in compagnia di Perrasita, un cane randagio che avevo adottato e che non ho potuto portare via con me”. Un cane che lo lascia e un altro cane che ritorna a visitarlo. Il ciclo della vita che finisce e che ricomincia, questo è il senso profondo e salvifico di Vernal equinox, una musica senza luogo e senza tempo, dedicata all’equinozio di primavera. Una musica particolarmente adatta all’anno che ci stiamo lasciando alle spalle.

“Se dovessi dire qual è il principio che regola la musica di Jon direi che è il rispetto”, scrive Brian Eno nelle note che accompagnano la recente ristampa di Vernal equinox. “Lui guarda al mondo, a tutti i suoi stati d’animo fuggevoli ed evanescenti, con estremo rispetto. Jon vede dignità e bellezza in ogni aspetto della danza della vita”.

Jon Hassell
Vernal equinox
Lovely music, 1977

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