A metà anni novanta la carriera della pop star australiana Kylie Minogue era in un vicolo cieco. Diventata famosa negli anni ottanta come attrice in una popolare soap opera del suo paese, aveva intrapreso, all’inizio quasi per scherzo, una carriera musicale che l’aveva vista diventare un’eroina pop dei due mondi, tra Australia e Regno Unito. Dopo quattro album di successo prodotti tra il 1988 e il 1991 dal trio Stock Aitken e Waterman (quelli di Rick Astley, Dead or Alive e Bananarama) Kylie Minogue sembrava aver perso slancio. Soprattutto lei stessa sembrava essersi stancata di essere Kylie Minogue, tanto da decidere, con una mossa che poteva sembrare avventata, di liberarsi dei produttori e degli autori che l’avevano resa famosa. Kylie era pronta a fare la fine di tante altre meteore del pop britannico.
Lei però era qualcosa di più di una meteora piovuta nel Regno Unito da una lontana ex colonia: si era insinuata silenziosamente nell’immaginario collettivo. La sua immagine si era evoluta fino a diventare un avatar delle fantasie maschili più trasversali. Era la divetta che con hot pants di jeans strappati ammiccava dai poster di riviste come Just Seventeen e Smash Hits ed eccitava le fantasie degli adolescenti eterosessuali. Allo stesso tempo era anche la vestale del dance pop più leggero e una fatina buona per gli adolescenti gay che si affacciavano per la prima volta in discoteca. La vecchia formula musicale era esaurita, ma Kylie Minogue continuava a essere una fantasia per molti ragazzi, gay o etero, e un punto di riferimento per molte ragazze attratte da quella sua innata capacità di essere sexy e rassicurante allo stesso tempo. Kylie era anche un’ossessione erotico-musicale per il musicista australiano Nick Cave che nel 1995 la contatta proponendole una canzone intitolata Where the wild roses grow, una canzone che parla di una passione omicida, di una versione morbosamente romantica di quello che oggi chiameremmo femminicidio. “Avevo una silenziosa ossessione per Kylie”, ha detto Cave nel 2007, “Da anni avevo intenzione di scrivere qualcosa per lei ma nessuna delle canzoni che scrivevo mi sembrava davvero adatta alla sua personalità. Poi ho scritto questo pezzo, un dialogo tra un assassino e la sua vittima, e glie l’ho mandata. Lei mi ha risposto il giorno dopo”. Tra i due nasce una collaborazione molto fortunata e un’amicizia che dura ancora.
A differenza di Madonna, che si è fatta largo a spallate nell’immaginario pop globale, Kylie Minogue ci è entrata in punta di piedi e i suoi cambi di direzione musicale, di look e di personalità non erano mai dei proclami o delle chiamate alle armi. Madonna ha sempre proiettato un’immagine forte e assertiva, Kylie è sempre rimasta una showgirl che con grazia, giocosità e non poca ironia, cambiava costumi e canzoni lasciandoci sempre intravedere qualcosa da dietro il tendone del circo.
Da metà anni novanta in poi, dunque, per Kylie Minogue comincia una rischiosa ma esaltante fase di sperimentazione. Sapere di non avere nulla da perdere la rende coraggiosa e non essere più una ragazzina la rende sicura delle sue scelte. Impossible princess è il più sperimentale e arrischiato album che Kylie Minogue abbia mai fatto. E questo lo rende sicuramente il mio preferito. Aveva cominciato a lavorare sui nuovi pezzi con il duo dance britannico Brothers in Rhythm ma presto salirono a bordo altri autori e altri produttori, tra cui la band indie rock Manic Street Preachers, Dave Ball (già sodale di Marc Almond nei Soft Cell) e Robert Dougan, stimato produttore trip hop e autore di Clubbed to death, pezzo che sarebbe diventato famosissimo grazie alla colonna sonora di Matrix.
Per la prima volta Kylie scrive tutte le canzoni e interagisce direttamente con produttori e musicisti che arrivano da mondi lontanissimi dal suo. Il risultato è un album caotico, sconnesso, straniante ma molto umano. Per la prima volta sentiamo una Kylie Minogue che, finalmente fuori dai binari del pop tradizionale, canta, recita, parla, improvvisa e arriva perfino a gridare. Too far, il pezzo che apre l’album, è un vertiginoso flusso di coscienza su una base drum n bass in cui, quasi senza fiato, ci chiede aiuto: “Questa volta mi sono spinta troppo in là!”.
In Did it again arriva a smontare se stessa: “Pensi di essere in gamba ma tu pensi troppo, ragazza… pensi di sapere tutto ma non sai un bel niente”. Nel video la vediamo in lotta con se stessa, con le altre Kylie del passato che la aggrediscono e vogliono gonfiarla di botte. In Some kind of bliss, il pezzo britpop che i Manic Street Preachers compongono mettendo insieme due testi diversi scritti da Kylie stessa, il tema è la libertà, la libertà di essere da sole anche se innamorate. Avete mai sentito una principessina del pop cantare che alla fine siamo sempre soli e che accettarlo è “una specie di beatitudine”?
Some kind of bliss, con il suo video vagamente tarantiniano, viene scelto come singolo di lancio dell’album e si rivela un’idea commercialmente pessima: va talmente male che l’etichetta decide di rimandare l’uscita dell’album. Il pubblico di Kylie non sembra interessato a una sua svolta rock. Peccato che in Impossible princess ci sia molto di più: dub, trip hop, drum n bass e anche una sorta di country western elettronico (Cowboy style) che Madonna riprenderà qualche anno dopo con una zampata delle sue quando farà Don’t tell me. Il materiale per l’album era talmente abbondante che Kylie si è trovata a scartare Soon, una canzone che Nick Cave aveva composto su un testo scritto da lei. “Era una bellissima ballata, ma al momento di cantarla non sono riuscita a rendergli giustizia”, ha ammesso Minogue.
A peggiorare il destino commerciale dell’album, nella settimana in cui sarebbe dovuto uscire, il 31 agosto del 1997, muore Lady Diana. Impossible princess, “principessa impossibile”, diventa un titolo inaccettabile per la casa discografica e viene frettolosamente cambiato in Kylie Minogue nel mercato europeo. Nonostante quattro singoli e quattro video memorabili (Some kind of bliss, Did it again, Breathe e Cowboy style), e nonostante un tour, Impossible princess rimane l’album di minor successo di Kylie Minogue.
Eppure è il lavoro che le ha dato la longevità che non avrebbe mai avuto se si fosse fermata. E di più: Impossible princess, riascoltato oggi, è una macchina del tempo per rivivere quello stranissimo anno di rottura che fu il 1997. L’anno delle Spice Girls e di Ok Computer dei Radiohead; della morte di Gianni Versace e di Lady Diana. L’anno in cui internet è diventato di massa e in cui è uscito il primo computer palmare, l’anno in cui esce Around the world dei Daft Punk e muore il poeta Allen Ginsberg.
Kylie Minogue
Impossible princess
Deconstruction/BMG/Mushroom, 1997
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