L’edizione di X Factor quest’anno è stata vinta da un ventenne anconetano che si è presentato con il nome d’arte di Baltimora. È stata una vittoria meritata e gli auguriamo felicità e successo. Qualcuno a X Factor però poteva dirgli che Baltimora era un nome d’arte già preso. Chiunque fosse stato vivo nel 1986, in Italia come negli Stati Uniti, non poteva non ricordare “quel” Baltimora, quello che cantava Tarzan boy.

Baltimora, come spesso accadeva ai prodotti italo disco degli anni ottanta, non era un artista ma era un progetto discografico. Era formato dal musicista e produttore Maurizio Bassi e dalla cantante e arrangiatrice statunitense Naimy Hackett, a cui si aggiunsero i chitarristi Giorgio Cocilovo (notissimo turnista che ha suonato con chiunque, da Mina a Cristina D’Avena) e Claudio Bazzarri, il bassista Pier Michelatti e il batterista Lele Melotti (altro veterano del rock italiano: era sua la batteria in Vado al massimo di Vasco Rossi). Bassi e Hackett scrivevano, arrangiavano e cantavano tutto: lui la parte solista e lei i cori.

Però mancava qualcosa: a metà anni ottanta era impensabile mandare un gruppo di anonimi musicisti a suonare un pezzo disco in trasmissioni televisive come Discoring o Superclassifica show. Occorreva un ragazzo immagine, qualcuno che cantasse in playback, che ballasse e che si materializzasse per il pubblico da una nube di ghiaccio secco. Il ballerino e cantante nordirlandese Jimmy McShane, che aveva già avuto esperienza come corista di Dee D. Jackson, in quel momento faceva l’infermiere alla Croce rossa, ma mollò tutto quando gli proposero di diventare il volto e il corpo di Baltimora. Alto, biondo, magro, dinoccolato, occhialuto e molto sorridente, McShane aveva tutto quello che occorreva: era esotico abbastanza per il pubblico italiano, si sapeva muovere ed era un intrattenitore nato. Riusciva a fare tutto senza prendersi troppo sul serio: aveva il viso mobile di un clown e il corpo agile di un ballerino. Avvolto in ampi spolverini (era il 1985!) che lasciavano intravedere tutine di lurex o improbabili salopette, svolazzava per il palcoscenico senza perdere una sillaba del suo playback.

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Tarzan boy, uscita nel 1985, è stata una hit, in Europa prima e negli Stati Uniti poco più tardi. La formula funzionava: la canzone, un pezzo synth pop che sosteneva una irresistibile melodia pop, era ai limiti del demenziale, ma la presenza di McShane la rendeva in qualche modo vera e come tutte le cose vere era in egual misura un po’ allegra e un po’ triste. Parlo di verità e non di autenticità: McShane non era un cantante, muoveva la bocca e si agitava, eppure Baltimora era lui. Tarzan boy era lui: aveva qualcosa di liberatorio, di esilarante. Per un adolescente gay di quegli anni era uno specchio imbarazzante in cui riconoscersi (“il buffone della festa”, “il mio amico strano ma supersimpatico”, “balla troppo bene”) e allo stesso tempo era liberatorio, perché ti sbatteva in faccia quello che era con una risata.

Baltimora è universalmente considerato una one hit wonder, ovvero un successo da una botta e via. Tecnicamente però non è vero. Non solo dopo Tarzan boy uscì un album (Living in the background), ma ci fu un altro singolo, Woody boogie, che ebbe comunque un buon successo. Quindi diamo a Baltimora quel che è di Baltimora: è stato almeno una two hits wonder.

Tarzan boy e Woody boogie avevano in comune, oltre alla struttura quasi identica della canzone, un’estetica da cartone animato: in Tarzan boy c’era l’urlo di Tarzan e in Woody boogie le tastiere imitavano l’inconfondibile verso del picchio Woody Woodpecker. Difficile immaginare gli Aqua di Barbie girl o i Cartoons di DooDah! senza il precedente pionieristico di Baltimora.

L’album Living in the background conteneva altre sorprese oltre a quei due singoli. Bassi e Hackett erano musicisti ed erano in grado di declinare il pop degli anni ottanta in tutti i suoi sottogeneri. Pull the wires è una ballatona con l’ingombrante assolo di sax che era di rigore in quegli anni e trasforma Baltimora in una strana mutazione di Mike Francis. Anche Living in the background, la canzone che dà il titolo all’album, ci porta altrove: sembra in tutto e per tutto un buon pezzo dei Duran Duran, potrebbe essere il demo di un brano dell’album Notorious. E Chinese restaurant è tutt’altro che banale: un epico pezzo pop wave con echi neanche troppo lontani di Big in Japan degli Alphaville e di One night in Bangkok di Murray Head.

Il successo di Baltimora fu tale che nel 1987 incisero un secondo album, che però fu rapidamente dimenticato. Jimmy McShane nel 1994, a Milano, scoprì di essere stato infettato dal virus dell’hiv. Ripartì per l’Irlanda del Nord e morì a casa sua, a Derry, il 29 marzo del 1995 a soli 37 anni.

Baltimora
Living in the background
Emi

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