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Reinventare Madonna

Madonna nel 1984. (Michael Putland, Getty Images)

Nel 1989 la band di rock sperimentale newyorchese Sonic Youth decise di mettere insieme una sorta di tributo a Madonna. Con il nome Ciccone Youth realizzò The whitey album, un lavoro frastagliato e dissonante, fatto di rudimentali campionamenti, drum machine, feedback e improvvisazione. In mezzo a quel caos sonoro emergevano, ben riconoscibili, due canzoni di Madonna: Into the groove – intitolata Into the groove(y) e Burnin’ up - cambiata in Burning up. I due pezzi, il primo una hit internazionale e il secondo uno dei suoi primi singoli, furono trattati con un certo rispetto dai Sonic Youth: la maggior parte della stampa rock vide in quell’operazione uno sberleffo, una presa in giro della pop star di plastica che stava dominando il mondo. La stampa rock dura e pura è da sempre contenta quando può additare al pubblico ludibrio un artista di successo liquidandolo come fasullo e “creato a tavolino”. Un’espressione, quest’ultima, che alle mie orecchie di vecchio poppettaro è sempre sembrata un complimento: se qualcosa è stata “creata a tavolino” vuol dire che dietro c’è del pensiero.

In occasione dei sessant’anni di Madonna, nel 2018, Thurston Moore dei Sonic Youth negò che quelle loro vecchie, scarabocchiate cover di Madonna fossero una presa in giro. In un’intervista al Guardian disse: “Abbiamo sinceramente abbracciato la joie de vivre di Madonna e la sua celebrità. Abbiamo fatto quelle cover e la gente ci ha preso per pazzi, qualcuno ci ha anche accusato di averle dato un qualche tipo di credibilità nell’underground. Ma lei già aveva la sua credibilità; era già genuinamente parte della scena newyorchese, non si è approfittata di nulla”.

I Sonic Youth nel 1989 dunque hanno visto qualcosa nelle canzoni di Madonna che in pochi all’epoca riuscivano a intuire: sotto l’involucro pop avvertivano una ruvidezza, un’urgenza che in qualche modo associavano alla scena no wave newyorchese da cui venivano. Nel Whitey album i Sonic Youth hanno preso due canzoni di Madonna e le hanno trattate come un ready made duchampiano: specialmente ascoltando la loro versione di Into the groove è evidente che stavano disegnando i baffi sulla Gioconda.


Nel 1989 Madonna aveva alle spalle solo cinque anni di carriera: era famosissima, ma in molti pensavano che la sua parabola sarebbe finita presto. Fast forward al 2021: Madonna a 64 anni è quella che in discografia si definisce una “legacy artist”, ovvero un’artista dal repertorio importante e pronta per la musealizzazione. Affrontare con spirito underground le sue canzoni oggi è un’impresa molto diversa: Madonna è molto più ingombrante di quanto fosse nel 1989 e soprattutto ha cambiato suono mille volte; dedicarle un tributo oggi significa fare una scelta, cogliere un angolo ben preciso e imporsi un punto di vista unitario sulla sua produzione fatta di momenti memorabili e di altrettanto memorabili passi falsi.

Se c’è una cosa che il musicista e produttore texano Johnny Jewel ha ben chiara, ai limiti dell’ossessione compulsiva, è la questione estetica. A metà anni novanta, partendo da una fascinazione per il suono no wave di New York (lo stesso suono che aveva dato origine ai Sonic Youth) Johnny Jewel forma la sua prima band, i Glass Candy, e il suo suono si evolve presto in un sospeso ibrido tra italo disco e synth pop. Con la sua seconda band, i Chromatics, mette ulteriormente a fuoco la formula: sintetizzatori vintage, echi e riverberi per una musica ambiziosa e spaziosa capace di alternare momenti di vuoto assoluto e horror vacui. Ascoltando i dischi dei Chromatics sembra di abitare un non luogo fuori dal tempo (un po’ come gli immobili paesaggi sonori anni ottanta immaginati dalla vaporwave) in cui però da un momento all’altro potrebbe succedere qualcosa.

Nel 2006 Johnny Jewel fonda la sua etichetta, con sede sia a Portland sia a Los Angeles, e la chiama Italians Do It Better (“gli italiani lo fanno meglio”). Il nome è un obliquo tributo proprio a Madonna, che nel 1986, nel video di Papa don’t preach, indossava una T-shirt con quella scritta. La Italians Do It Better, all’inizio, pubblica solo album di Johnny Jewel nelle sue varie incarnazioni, tra cui quella di autore di colonne sonore di film veri o immaginari. Nel 2011 scrive e produce, insieme al compositore Cliff Martinez, la musica per Drive, il thriller di Nicolas Winding Refn con Ryan Gosling nel ruolo di un taciturno meccanico e stuntman di Hollywood pieno di segreti. Col tempo l’etichetta ha cominciato a pubblicare altri artisti: tutti però sembravano una sorta di emanazione di Johnny Jewel e del suo mondo.

Un omaggio mirato
Italians Do It Better, una compilation di venti cover di Madonna uscita nel 2021, è anzitutto una celebrazione del suono, dell’estetica e della visione di Johnny Jewel, ed è da considerarsi a tutti gli effetti un suo album più che una raccolta. La sua regia comincia dalla scelta dei pezzi: ben tredici canzoni vengono dalla corposa produzione madonnesca degli anni ottanta, gli altri sono scelti con cura dai suoi album più elettronici (Confessions on a dancefloor, American life, Music e Ray of light). Manca completamente la sua fase rnb e urban: anche pezzi solidi come Rain, Take a bow e Human nature vengono completamente ignorati. Di quel periodo compare solo Justify my love, un pezzo del 1990 scritto e coprodotto da Lenny Kravitz che effettivamente faceva da cerniera tra la Madonna anni ottanta e quella anni novanta. La tastierista e sassofonista australiana Jorja Chalmers distorce il suono del sax e della propria voce per portare quello che era un pezzo trip hop vagamente soft porno in un’altra dimensione.

Il modus operandi degli artisti della Italians Do It Better è sempre lo stesso in tutte le venti tracce dell’album: scelgono un pezzo di Madonna, ne isolano un paio di elementi (un loop, una linea di basso, un arpeggio di synth, una melodia vocale), lo rallentano e lo fanno esplodere tra riverberi, echi e strati di suono. La band bielorussa Dlina Volny (“lunghezza d’onda”) prende un robusto pezzo electroclash come Hollywood (dal bistrattato album American life del 2003) e lo trasforma in qualcosa che avrebbero potuto concepire i primi Ladytron. Nel privare il pezzo di tutti i suoi elementi pop i Dlina Volny fanno un’operazione quasi filologica, riportando Hollywood alle sue radici electro.

Ancora più radicali sono i canadesi In Mirrors che scelgono I’m addicted (dall’album MDNA del 2012) e la trasformano in un acidissimo tributo ai Cabaret Voltaire; in realtà non fanno che enucleare e amplificare elementi della produzione originale dell’italiano Benny Benassi. Questo modo di lavorare rende evidente quanto i pezzi di Madonna fossero oggetti complessi dal punto di vista produttivo. Se c’è una cosa che Madonna ha sempre saputo fare è stato modellare il suono del momento, anche il più dissonante e radicale, in modo da assecondare le sue esigenze pop.

I russi Love Object spogliano Frozen (1998) della produzione di William Orbit, che prevedeva un memorabile arrangiamento per archi di Craig Armstrong, e ne fanno un algido pezzo cold wave, mentre il duo italo disco norvegese Sally Shapiro spara Holiday (1984) direttamente nello spazio senza rovinarne il groove perfetto. C’è anche chi, come il duo francese Double Mixte, sceglie una canzone di Madonna e la reinventa completamente: è il caso della loro letargica La isla bonita (1986), che sembra uno scontro al rallentatore tra Serge Gainsbourg e i Chromatics.

Like a virgin (1984) e Like a prayer (1989) vengono riprese dal duo pop retrofuturista di gemelle mormone Mothermary, cresciute in mezzo ai loro dieci fratelli in una comunità religiosa del Montana. La prima suona come una preghiera recitata in una camera anecoica, alla seconda viene messo il turbo di una bassline fantastica e viene concessa una gioisità pop che mantiene qualcosa di sinistro e di vagamente minaccioso.

L’omaggio alla musica di Madonna di Johnny Jewel, come quello dei Sonic Youth a fine anni ottanta, non ha nulla di dissacrante o di ironico. Al contrario, offre un punto di vista laterale sulla produzione di una delle più grandi innovatrici della musica pop e ne svela un segreto lato radicale, se non addirittura sperimentale.

Artisti vari
Italians Do It Better – Twenty covers, 19 artists & 10 countries
Italians Do It Better, 2021

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