Chi segue questa rubrica avrà capito che mi piacciono molto i concept album, quegli album che hanno un filo conduttore preciso che lega una canzone all’altra. È un concetto oggi forse un po’ polveroso, magari associato al progressive rock, ma in realtà risale a molto tempo prima, agli anni quaranta, gli anni della nascita del long playing stesso. In epoca pre rock’n’roll, qualunque recital di cantante doveva essere un “concept album”: canzoni di Natale, canzoni sulla primavera, canzoni sull’alcol, sullo sport, sui viaggi, sull’inizio di un amore, sulla fine di un amore, sull’assenza dell’amore… insomma ogni scusa era buona per mettere insieme un programma fantasioso, possibilmente con una copertina dai bei colori vividi, magari realizzata da qualche famoso illustratore delle locandine cinematografiche.

Quando, a metà anni cinquanta, il compositore e arrangiatore Gordon Jenkins (1910-1984) comincia a mettere insieme un micro-musical chiamato The letter non ha ancora in mente Judy Garland. La sua idea è quella di descrivere, sulle due facciate di un lp, una moderna storia d’amore a New York. Sullo sfondo del Greenwich village e dei suoi locali una giovane coppia si conosce e riversa in una lettera i propri sentimenti su un ricco sottofondo orchestrale. La facciata A doveva essere la lettera di lui e la B la risposta di lei.

La carriera di Jenkins in quegli anni va benissimo: è il nome su cui tutti i grandi cantanti del tempo contano per avere gli arrangiamenti orchestrali più ricchi e fastosi. Gente come Nat King Cole, Ella Fitzgerald, le Andrews Sisters e Frank Sinatra ha grandi successi grazie alla sua direzione musicale. Negli anni trenta, anche Judy Garland, ancora giovanissima, viene diretta da lui per uno speciale radiofonico. Ma soprattutto Garland incide con lui, nel 1957, quello che è considerato l’album in studio migliore della sua discografia: Alone. Ascoltate qui Little girl blue: la vita personale di Garland va già a rotoli e i suoi ormai famosi problemi di dipendenza dalle sostanze sono tutti lì, ma la sua voce è ancora intatta e la sintonia con l’orchestra di Jenkins è miracolosa. Quando la Capitol, l’etichetta di Garland, scopre che Jenkins sta lavorando su The letter gli propone di farne un album espressamente scritto per Judy Garland. Jenkins butta via tutto il lavoro fatto e riscrive il suo micro-musical dal punto di vista della ragazza, e comincia le prove al pianoforte proprio a casa della diva.

Adesso non ci sono più due lettere ma una sola: quella di lui che viene letta dalla voce forse un po’ troppo impassibile e robotica dell’attore John Ireland. La musica invece va tutta a Judy, che attraverso dieci numeri musicali semplicemente perfetti commenta le varie tappe della sua storia d’amore con questo signore che, rispetto a lei, non può che sembrarci tremendamente scialbo. I due si conoscono nel Village e scocca subito la scintilla, come nelle migliori commedie romantiche di quegli anni. Lui scrive che conoscerla è stato il 4 di luglio (fuochi d’artificio) e la mattina di Natale (la gioia incontenibile di un bambino), e lei risponde con Beautiful trouble, in cui dice di aver capito di essere nei guai ma alla fine spera di finirci sempre di più. I due innamorati si baciano per la prima volta sotto l’arco di Washington square, che sembra non essere abbastanza ampio per contenere il loro entusiasmo. L’album è registrato tutto dal vivo con l’orchestra e un piccolo coro negli studi della Capitol Records tower a Los Angeles in soli due giorni. Gli unici overdub sono alcuni rumori di traffico e i suoni di ambiente di un locale, tutto il resto è registrato in presa diretta come si usava allora. Arrivati alla scena del bacio Garland, per rendere più realistica la cosa anche su disco, si avvicina a Ireland e lo bacia davvero davanti agli occhi allibiti dell’orchestra. Gordon Jenkins, ricordando quel momento, pensa che quello tra i suoi due artisti sia stato l’unico vero bacio mai catturato su disco. Chissà se è vero: sicuramente nei cinquant’anni successivi su disco sono stati catturati orgasmi di ogni tipo, veri o simulati.

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Ogni numero musicale è un quadro. Quando la coppia si rifugia da Rick’s, il loro localino segreto al Village, una band sta suonando il blues. In sottofondo si sente cantare la voce di Charlie LaVere, un pianista jazz molto amico di Jenkins e all’epoca direttore musicale dello Horseshoe a Disneyland. La coppia flirta mentre LaVere canta la sua canzone (Charlie’s blues) e nella voce un po’ aspra di Garland si sente che qualcosa comincia a non andare più così bene tra i due. Già nella seconda facciata dell’album le cose volgono al peggio, con la straordinaria That’s all there is, there isn’t anymore. Lei però si è già trasferita fuori città. Quale metafora migliore per la fine di un amore giovanile della fuga da New York? Garland legge la lettera di lui da una casa dei sobborghi che noi immaginiamo linda e ordinata come quelle di certe pubblicità anni cinquanta ma priva di gioia. Tra le righe si legge che anche New York (l’ingombrante terzo incomodo in questa storia d’amore) sta cambiando. Rick’s ha chiuso “la sua porta magica” e il quartiere sta cambiando faccia. Evidentemente la gentrificazione era già un problema nel 1959.

Lui passeggia solitario per Central park e continua a pensare a lei. Quando descrive una bimba con un palloncino rosso, Garland risponde con una delle canzoni più belle dell’album, The red balloon, in cui chi ascolta oggi non può non sentire la sua voce vera, quella della ex star bambina, sbeccata dall’amarezza e dalla disillusione. Vocalmente Judy Garland non è mai stata così in forma, ma c’è quel qualcosa che comincia a serpeggiare nella sua voce che qui lei spinge dolorosamente in alto, come il palloncino che sfugge dalle dita della bambina. Il tono però cambia subito, ascoltare The letter è davvero un giro sulle montagne russe, e noi riviviamo un loro litigio che assume contorni decisamente comici e kitsch: il problema sembra essere un cappellino di lei per cui lui chiede se per caso non fosse Halloween.

Tra alti e bassi si arriva al lieto fine. Nel mezzo della tranquilla sera suburbana, annunciata da un rullo di tamburi, arriva una telefonata e Judy risponde: “Oh sì, sì, sì” su un tripudio di orchestra e cori dalle sfere celesti. Con quei sì, quegli “yes” quasi singhiozzati, finisce tutto, su una nota che dovrebbe essere gioiosa ma che non riesce nascondere il dolore sordo della persona vera che li pronuncia. La grandezza della Judy Garland matura è tutta qui: anche su un canovaccio brillante e romantico come The letter la sua voce è segnata da un’ombra e quel qualcosa d’inafferrabile e inquietante arriva a tutti. Anche oggi, a distanza di più di sessant’anni.

Le sessioni di registrazione di The letter sono finite intorno alla mezzanotte del 16 gennaio 1959. Jenkins ricorda che tutta l’orchestra si è alzata in piedi per applaudire Judy Garland e gli altri artisti. Proprio come a teatro, solo che erano tutti chiusi, a tarda notte, in uno studio di registrazione di Los Angeles.

Un’ultima curiosità per i feticisti degli album: la prima edizione di The letter (registrata in mono) usciva con una busta incollata sulla copertina con all’interno un foglio ripiegato con il testo integrale della lettera che viene letta nel disco.

Judy Garland
The letter
Capitol, 1959

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