Tutti conoscono Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e Billie Holiday, i tre pilastri del jazz vocale femminile del novecento. Molte meno persone conoscono la newyorchese Carmen McRae (1920-1994), che può essere considerata a tutti gli effetti un quarto pilastro, anche perché riusciva a eccellere in tutte le specialità per cui erano famose le altre tre: aveva il senso della melodia di Ella, la profondità e la bellezza della voce di Sarah e la capacità di Billie di mettere la sua vita in tutto ciò che cantava. Se aggiungiamo che aveva anche il ritmo e lo swing di Anita O’Day abbiamo un quadro del talento multiforme di Carmen McRae.

McRae conobbe Billie Holiday a 17 anni mentre già lavorava nel circuito dei locali jazz di New York. Lei era nata ad Harlem nel 1917 da due immigrati giamaicani e Holiday aveva solo due anni più di lei. McRae le rimase legata tanto che, nel corso della sua carriera, ha sempre cantato qualcosa tratto dal suo repertorio. In ogni suo album c’è una traccia, anche nascosta, dell’estetica e dello stile di Billie Holiday. Uno dei tratti che avevano in comune era la severità con cui selezionavano il repertorio. McRae ha dichiarato più volte che per lei le parole delle canzoni erano l’ottanta per cento delle ragioni per cui sceglierla. La parola era centrale nel canto di Carmen McRae come la era in quello di Billie Holiday. Che cantasse uno standard degli anni venti o una canzone pop del momento, Carmen McRae ha sempre dato il massimo, più che nel virtuosismo di cui pure era capacissima, nella resa emotiva e nell’interpretazione.

Pare che McRae fosse un’artista difficile: non era solo estremamente pignola nella scelta delle canzoni (ne scartava migliaia), ma anche esigente e dispotica con i musicisti. Lei stessa ottima pianista, si scontrava spesso con produttori e arrangiatori. Immaginate come potesse soffrire poco i discografici: dopo una serie di album sofisticati ma non di grande successo con la Decca negli anni cinquanta, cambiò spesso etichetta. I rapporti con direttori musicali, manager e discografici erano talmente turbolenti che pur di non dover avere a che fare con lei in studio si preferiva registrarla dal vivo nei locali in cui cantava ogni sera con la sua band. I suoi album più belli, tra la fine degli anni cinquanta e buona parte degli anni sessanta, sono dei live. Forse le ragioni per cui McRae non ha avuto il successo e la fama delle altre grandi della sua generazione sono proprio in questa sua spigolosità. Essere una donna nell’industria discografica degli anni cinquanta e avere le idee chiare su tutto non doveva renderle le cose facili.

Per capire di cosa fosse capace Carmen McRae con il repertorio jazz ascoltate un suo live del 1973, As time goes by - live at Dug, in cui si accompagnava da sola al piano in un locale di Tokyo. Per capire invece di che intelligenza musicale fosse capace quando sconfinava nel pop continuate a leggere qui.

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Sul finire degli anni sessanta, quasi cinquantenne, Carmen McRae comincia, come altri artisti della sua generazione, ad allargare il suo repertorio includendo anche pezzi rhythm’n’blues e rock di quegli anni. In molti casi si trattava di scelte obbligate per avere passaggi radiofonici e fare l’agognato (per alcuni) crossover al più lucrativo mondo del pop. Non è il caso di McRae che affronta anche la top 40 del momento con il suo consueto rigore. Sotto contratto con l’Atlantic (la stessa etichetta che aveva rilanciato in chiave ultracontemporanea la carriera di Aretha Franklin), McRae produce una manciata di album tra cui spicca The sound of silence (1968), una raccolta di successi recenti e di standard arrangiati per orchestra da Shorty Rogers e da Jimmy Jones.

È proprio Jimmy Jones ad arrangiare in chiave decisamente funky The sound of silence, il successo di Simon & Garfunkel del 1964 poi reso celebre dal film Il laureato. La canzone perde tutto il suo minimalismo e il suo cupo, malinconico senso di vuoto per trasformarsi in un groove sostenuto da un’insistente linea di basso. Sta alla maestria di Carmen McRae dare, attraverso la parola e il ritmo, un senso a questa bizzarra trasformazione. La canzone originale non ha bridge o cambi di tonalità, tutta la narrazione è affidata a versi piuttosto criptici che McRae riprende con fraseggio all’inizio limpidissimo, aggiungendo melismi e variazioni a ogni stanza, variazioni che non c’impediscono mai di distinguere le parole della canzone, sillaba per sillaba. Il colpo di teatro arriva quando il pezzo s’interrompe all’improvviso, senza finire l’ultimo ritornello con la parola “silence” che ci si aspetterebbe in conclusione. Il groove si arresta lasciandoci appunto solo col suono del silenzio che è ancora più tetro dopo un arrangiamento così movimentato.

La ragione per cui ho scelto The sound of silence rispetto agli altri dischi pop che McRae ha inciso per l’Atlantic (ero molto indeciso con Just a little lovin’ del 1970, con le straordinarie Sweet Inspirations ai cori) è perché è quello che meglio si tiene in equilibrio tra pop e standard jazz facendoci capire come una grande voce possa trascendere generi, mode e epoche. Dopo il pezzo di Simon & Garfunkel infatti McRae torna nel porto sicuro del songbook americano più classico con I got it bad (and that ain’t good), uno showtune di Duke Ellington del 1941. Il passaggio dal pop degli anni sessanta a questa malinconica, sensuale ballad jazz dall’orchestrazione discreta non è brusco, perché al volante c’è una cantante che sa ammaliare un ascoltatore di qualunque età e portarlo dove vuole lei.

Con MacArthur park di Jimmy Webb si torna al presente del 1968 con una canzone-suite composta da diversi movimenti e un testo quasi impressionista, fatto di veloci pennellate che danno un quadro anzitutto emotivo della situazione. Il tema è, ovviamente, la fine di un amore descritta tornando nel parco in cui quell’amore era nato. E McRae è la cantante giusta per dare senso a un verso come: “MacArthur park si sta sciogliendo nel buio, tutta la sua dolce glassa verde viene giù: qualcuno ha lasciato la torta là fuori nella pioggia”. Se pochi anni dopo Giorgio Moroder e Donna Summer hanno fatto di questa strana, complessa canzone un successo disco una delle ragioni può essere il lavoro che la grande Carmen McRae aveva già fatto sul ritmo e sul fraseggio.

Se Watch what happens è la raffinata reinvenzione di un brano tratto dal musical francese Les parapluies de Cherbourg, Stardust è di nuovo uno standard, stavolta celeberrimo, del 1927. McRae lo affronta con la naturalezza di un’artista matura nel suo elemento: prende una canzone che si calcola sia stata incisa circa 1.500 volte e la fa sua con una freschezza e un’autorevolezza che la fanno sembrare nuova di zecca.

Le incursioni nel pop continuano con Don’t go away, un pezzo di sunshine pop californiano composto da Margo Guryan che McRae affronta con la giusta leggerezza. Leggerezza che si dissolve quando si gira il disco e la facciata B parte con i lugubri accordi di Gloomy sunday. È la cosiddetta canzone dei suicidi (nella sua versione italiana è Triste domenica), composta nel 1933 dal pianista ungherese Rezső Seress e già cantata, tra i tanti, dall’adorata Billie Holiday.

La canzone era accompagnata da una cattiva fama: si diceva che portasse al suicidio, anche perché il suo stesso compositore, dopo essere sopravvissuto a un volo della finestra, finì per uccidersi all’ospedale soffocandosi con un cavo. McRae decide di affrontarla con asciuttezza, lascia alla musica la sua cadenza da marcia funebre, mentre la sua voce è fattuale, fredda come fredda è la decisione di chi si organizza per togliersi la vita e raggiungere la persona amata nell’aldilà. “Il mio cuore e io abbiamo deciso di farla finita”, dice senza troppo dramma: “Presto ci saranno preghiere e candele che sono tristi, lo so; non fateli piangere, fategli sapere che sono felice di andarmene”. Paradossalmente l’emozione vera, la commozione la scatena in quello che dovrebbe essere il “lieto fine” della canzone: era tutto un sogno, la persona amata dorme accanto a lei e nella realtà non è morto nessuno: “Caro, spero che il mio sogno non ti abbia turbato, è solo il mio cuore che mi dice quanto ti desideri”, e solo qui McRae apre la canzone, stavolta con la voce rotta dall’emozione.

La facciata B di questo variegato tour de force continua con Poor butterfly, un vecchissimo standard del 1916 che contiene una citazione dal duetto Tutti i fior dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini, che aveva debuttato nel 1904 entrando subito nell’immaginario popolare. In qualche senso McRae la pensa come un ripescaggio pop, visto che quella vecchia canzone era tornata in classifica nel 1954 con il gruppo vocale The Hilltoppers. Anche My heart reminds me è uno strano revival: era basata su uno strumentale italiano intitolato Concerto d’autunno e trasformato in una canzone che è stata rieseguita da chiunque, da Dean Martin a Claudio Villa. McRae lo spoglia di qualunque italianità pittoresca e lo tratta come uno standard, swingandolo un po’ e godendosi la sua melodia.

L’album si chiude in modo un po’ agrodolce con Can you tell, un’altra composizione pop di Margo Guryan il cui testo, che parla di un amore che non può essere nascosto e che si legge negli sguardi e nei sorrisi di due innamorati segreti. È l’esempio perfetto di canzone scelta da un’artista capace, grazie alle sue sovrumane doti interpretative, di dire e non dire, di nascondere e svelare, tutto in soli due minuti.

The sound of silence non sarà il migliore degli album che Carmen McRae ha inciso per l’Atlantic e sicuramente non è quello che mostra meglio la sua eccellenza d’interprete jazz. Però è il lavoro che meglio svela la sua capacità di affrontare un repertorio sconfinato e di dimostrare che non esistono standard o canzonette da classifica: esistono solo le canzoni. E i grandi interpreti capaci di farle vivere.

Carmen McRae
The sound of silence
Atlantic, 1968

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