Warren Ellis è un violinista e compositore australiano; dal 1993 è un collaboratore fisso di Nick Cave e nel 2022 ha scritto un libro intitolato Nina Simone’s gum, la gomma di Nina Simone.

In questo lavoro che è un po’ memoir, un po’ flusso di coscienza e un po’ riflessione culturale, Ellis racconta del giorno del 1999 in cui ha visto per la prima e unica volta in vita sua Nina Simone cantare. L’occasione era il Meltdown festival organizzato dall’amico Nick Cave e il luogo era la Royal Festival hall di Londra. Simone all’epoca aveva 66 anni ed era una donna precocemente invecchiata, malferma sulle gambe (girava su una sedia a rotelle o con un deambulatore) che voleva essere annunciata al pubblico come Doctor Nina Simone. Aveva licenziato il bassista della sua band in aereo (“Non importa, il basso lo faccio io con la mano destra al piano”, avrebbe detto al tecnico del suono) e in camerino, mezz’ora prima dello show, aveva chiesto champagne, una striscia di coca e delle salsicce.

Le richieste di un genio
La Nina Simone del 1999 non era però una vecchia diva capricciosa, era soprattutto un genio. Anzi, era solo un genio. Dei geni non si giudicano le stranezze: se Beethoven avesse chiesto coca, champagne e salsicce gli avrebbero portato coca, champagne e salsicce senza discutere. E Nina Simone, Doctor Nina Simone, fu trattata come il genio che era. Tutti la temevano, temevano le sue sfuriate e i suoi improvvisi cambi di umore, e quando si è trascinata sul palco, lasciando il deambulatore dietro le quinte, pubblico e organizzatori non sapevano cosa aspettarsi.

Simone si è seduta al piano e, dopo un inizio poco promettente, una Black is the color of my true love’s hair in cui la sua voce si sentiva appena, si è alzata di nuovo in piedi, si è rivolta al pubblico con il pugno alzato e ha urlato “Yeah!”. Da quel momento in poi lo show è stato grandioso. Ed Ellis, seduto nelle prime file, lo divorava con lo sguardo. Aveva registrato ogni movimento della musicista che, subito prima di posare le dita sulla tastiera, si era asciugata la fronte con un asciugamano e si era tolta una gomma da masticare dalla bocca e l’aveva appiccicata al piano. Ellis era rimasto fissato su quella gomma da masticare: guardava il concerto, ma sapeva che su quel pianoforte c’era attaccata una reliquia. Una sorta di oggetto magico, di feticcio che assorbiva l’energia, il genio, la rabbia, il carisma, la musica di quella donna portentosa che aveva studiato duramente per diventare concertista classica ma poi, visto che era nera e negli Stati Uniti degli anni cinquanta di concertiste nere non ce n’erano, si è dovuta reinventare come Nina Simone. Di professione genio.

Finito il concerto, Warren Ellis, non visto, ha staccato la gomma masticata di Nina Simone dal piano, l’ha avvolta nell’asciugamano con cui si era asciugata la fronte e l’ha messa in un sacchetto di plastica del negozio di dischi Tower Records. Ha conservato quella reliquia tutta la vita e di quella gomma masticata ha perfino fatto una serie di calchi: la considera un oggetto sacro, un catalizzatore per la sua creatività, un gioiello rituale.

In quella gomma-reliquia c’era l’essenza trasformativa del genio di Nina Simone. “Quando è tornata a sedersi al piano dopo la prima canzone”, scrive Ellis, “abbiamo assistito alla più incredibile delle trasformazioni. La sua voce si è risollevata e lei sembrava rinata. Batteva forte sui tasti e la voce sembrava sfidare le limitazioni del suo corpo. Si vedeva come sentiva le urla del pubblico. Le assorbiva, ne faceva il carburante per correre verso quel genio che ha definito la sua vita di artista”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Questa lunga premessa per dire che nella sconfinata discografia di Nina Simone c’è un album del 1969 che descrive perfettamente il genio solitario di Nina Simone e la vede raggiungere con naturalezza quel luogo nascosto dentro di lei in cui le sue frustrazioni, la sua rabbia, il suo male di vivere, quella sua suprema incazzatura nei confronti del mondo si coagulano in musica memorabile. Questo album s’intitola Nina Simone & piano! (con il punto esclamativo alla fine) ed è appunto fatto solo da Nina Simone con il suo pianoforte. Senza nessuna band.

Simone era reduce dal moderato successo che nel 1968 aveva avuto il suo album semi-live ’Nuff said! in cui aveva fatto di un pezzo del musical Hair (I got life) una piccola hit radiofonica. In quegli anni Simone stava affinando la sua capacità rabdomantica di scegliere le canzoni dalle fonti più disparate: non solo standard jazz o classici del blues ma anche canzoni popolari, canzoni pop, vecchio rhythm ’n’ blues, temi di grandi film o di musical dimenticati… tutto era da lei ripreso e trasformato in qualcosa di talmente urgente da mettere quasi a disagio.

Molti dei pezzi che ripescava dall’oscurità e reinterpretava erano poi intercettati da artisti bianchi che ne facevano dei grossi successi commerciali. E la cosa la mandava giustamente in bestia: era una versione più subdola di quel razzismo sistemico che da ragazza le aveva impedito di diventare una concertista classica. Quando gli Animals riprendevano direttamente dal lei il folk blues di House of the rising sun o Don’t let me be misunderstood lei si sentiva derubata. E quando i Creedence Clearwater Revival rifacevano con successo I put a spell on you la fonte era lei, non il bluesman Screamin’ Jay Hawkins, l’interprete originale.

Da una parte gli artisti pop rock bianchi sembravano averla apprezzata e capita prima di quanto avesse fatto la scena jazz, dall’altra lei si vedeva privata di un successo commerciale che sapeva di meritare. Siamo in una zona molto scivolosa tra omaggio e furto: e quello del furto sistematico da parte dei bianchi della ricchezza e della cultura dei neri era un tema che, nel momento in cui infuriavano le battaglie per i diritti civili, infiammava Nina Simone.

La pianista e l’arrangiatrice
Con Nina Simone & piano! l’artista cerca di spostare l’attenzione del pubblico sulla sua competenza di pianista e di arrangiatrice più che sul suo carisma di star o di cantante. Ma lo fa scegliendo ancora una volta un repertorio stupefacente e cantando con una forza che ha qualcosa di sovrumano. Soprattutto si riaggancia, in modo intelligente ma certamente per lei doloroso, alla sua formazione classica. Il punto di partenza di Nina Simone & piano! è la sua frustrazione di pianista classica mai realizzata, una riappropriazione di quell’arte che aveva faticosamente acquisito grazie a borse di studio e generosi mecenati, e che poi le aveva chiuso la porta in faccia sul più bello. Nina Simone & piano! è una sorta di recital, di liederabend se vogliamo, ma è un recital fatto alle sue condizioni, con il suo repertorio e in cui la tecnica pianistica classica viene piegata a suo piacimento e usata per raccontare un’altra storia. La sua.

Eppure Nina Simone & piano! non ha la rabbia che avevano gli album immediatamente precedenti: è un lavoro all’apparenza più intimo, più privato, in cui l’artista, così abbottonata da giovanissima e poi così rabbiosa e scatenata, trova un suo equilibrio maturo e in alcuni momenti si permette anche di mostrare la sua fragilità. Qui Nina Simone è sola con il suo pianoforte, senza altri musicisti; non c’è neanche il pubblico dei live (o dei finti live) che andavano tanto di moda alla fine degli anni sessanta.

L’album parte con Seems I’m never tired lovin’ you, un pezzo praticamente sconosciuto scritto da Carolyn Franklin, la sorella di Aretha, ed eseguito originariamente da una band il cui manager era Andy Stroud, il marito di Simone. È un classico pezzo soul ricco di venature gospel che Simone riprende in modo intimista e introspettivo. Man mano che il pezzo va avanti e che si configura sempre più come una preghiera, Simone ne sottolinea gli aspetti gospel con melismi e variazioni. E alla fine è chiaro che quel “tu” che Nina Simone non si stanca mai di amare può essere solo Gesù.

It’s nobody’s fault but mine è una composizione della stessa Simone, una fusione tra spiritual e blues che si riallaccia a grandi pioniere del passato come Sister Rosetta Tharpe, grandi artiste nere che hanno fatto, mai propriamente riconosciute, la storia di quello che noi oggi chiamiamo rock ’n’ roll. Simone si riallaccia con consapevolezza a quella tradizione e la rivendica con un pezzo che sa di chiesa battista senza essere però predicatorio o normativo. Più che una predicatrice sul pulpito Simone qui sembra una peccatrice che ammette le sue colpe.

I think it’s going to rain today è invece una composizione del cantautore americano (bianco) Randy Newman che con il tempo è diventato molto popolare. Era un pezzo già reso famoso da artiste pop come Judy Collins e Dusty Springfield, ma Nina Simone ne sottolinea gli aspetti più blues e nell’introduzione si lancia anche in un piccolo omaggio a Bach. La canzone, con il suo tono sconsolato, sembra continuare nel pezzo successivo, Everyone’s gone to the Moon, una piccola hit pop del 1965 del cantautore britannico Jonathan King, l’uomo che rimase famoso per aver inventato il nome Genesis per la band di Peter Gabriel e Tony Banks. Everyone’s gone to the Moon è surreale e inquietante: è come camminare in un mondo rimasto disabitato, senza l’ombra di un essere umano. Quella che nel testo originale è una riflessione un po’ moraleggiante sui vecchi valori che sono andati perduti, in bocca a Nina Simone diventa la descrizione del giorno del giudizio.

Compensation è un testo del poeta afroamericano Paul Laurence Dunbar (1872-1906) messo in musica da Simone. Sembra di sentire un intero gruppo gospel in chiesa, ma tutte le voci che sentiamo sono sovraincisioni della voce di Simone che esegue la varie parti del coro. Ancora una volta una canzone sembra fondersi in quella seguente: Who am I? è tratta da un poco noto adattamento musicale di Peter Pan del compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein. La canzone dovrebbe essere una ninna nanna intonata da Wendy, ma Simone la attacca con note dissonanti, quasi a voler risvegliate l’ascoltatore, e la trasforma in una riflessione sulla reincarnazione: “Vivrò ancora?”, canta Simone, “magari come un leone di montagna o un gallo o una gallina?”

Another spring è un pezzo scritto da Angelo Badalamenti, l’allora poco noto compositore che sarebbe diventato famosissimo decenni dopo per la colonna sonora di Twin peaks di David Lynch. È una canzone che comincia quasi parlata e piena di dissonanze per farsi via via sempre più melodica e allegra. La Nina Simone interprete e arrangiatrice qui è al suo massimo: modella la musica come creta e il suo canto si confonde con il piano come se fossero una voce sola. La protagonista è felice perché, sì, alla fine vedrà un’altra primavera.

Da Randy Newman a Jacques Brel
L’unico vero standard del programma è I get along without you very well (except sometimes), già noto al pubblico per le interpretazioni di Chet Baker e Frank Sinatra. Simone lo usa per aprire uno spiraglio d’intimità e mostrare, con coraggio, la propria fragilità. Il critico musicale Will Friedwald nota che nel resto dell’album “Nina Simone sembra pensare ad alta voce, una cosa meravigliosa da ottenere per qualunque interprete, ma qui va ancora un po’ più in profondità: sembra che stia ‘sentendo’ ad alta voce”.

L’album originale del 1969, al netto delle bonus track uscite nella ristampa in cd del 1999, si chiude con The desperate ones, Les désespérés, un pezzo tratto dal musical off Broadway del 1968 Jacques Brel is alive and well and living in Paris (Jacques Brel è vivo e vegeto e vive a Parigi). Questa canzone non compare nell’album inciso dal cast originale, quindi è evidente che Nina Simone deve aver visto lo spettacolo in teatro a New York. Ancora una volta l’artista si lancia in un arrangiamento virtuosistico che denota quanto fosse a suo agio sia con la chanson francese sia con il teatro musicale in ogni sua forma. Non canta mai veramente: sussurra e basta e una voce (sempre la sua) le risponde come un’eco. Non si capisce bene chi siano i disperati di cui si parla (anche il libretto del musical non offre un grande aiuto in questo senso), ma Simone crea una dimensione di mistero e di magia, non troppo distante dal folk rock sciamanico sperimentato proprio in quel periodo dalla cantautrice nativa americana Buffy Sainte-Marie.

Nina Simone & piano! vede Simone al massimo delle sue capacità di interprete, arrangiatrice e produttrice. È un album mirabolante per repertorio, musicalità, ambizione e per l’uso accorto delle più aggiornate tecnologie di registrazione e di overdub non solo delle parti vocali, ma anche di quelle aggiuntive per piano. Soprattutto è l’esempio più evidente di quella che è stata la caratteristica più notevole del suo lavoro: quella di usare la musica e il canto come forze trasformatrici. Simone da sola al piano è capace di abitare mille mondi e di raccontarceli da mille punti di vista.

Chiedetelo a Warren Ellis, che conserva ancora religiosamente la gomma masticata di Doctor Nina Simone, un feticcio che (da lettori del suo buffo libro possiamo crederlo o no) con la sua influenza magica lo ha trasformato come persona e come musicista.

Nina Simone
Nina Simone & piano!
RCA, 1969

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it