Uno dei miei primi ricordi musicali è il riff di Enola Gay, 45 giri della band synth pop britannica Orchestral Manoeuvres in the Dark (Omd). A dieci anni non sapevo che la canzone avesse lo stesso nome dell’aereo che sganciò la prima bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto del 1945. O meglio, qualche adulto me lo avrà detto visto che la canzone era popolarissima in Italia nel 1980, ma a me non interessava: quel suono elettronico mi sembrava arrivare dritto dal futuro, non dai libri di storia del novecento. In un certo senso quella canzone arrivava davvero dal futuro perché Enola Gay è stato il primo pezzo di grande successo a fare da cerniera tra il post punk più sperimentale e le classifiche dei dischi più venduti. Dalle nebbie della Manchester dei Joy Division alla trasmissione tv Pop Corn e dritta nel soggiorno di casa mia, a Roma, Enola gay arrivava con un buon anticipo rispetto alla scorpacciata di pop elettronico che sarebbero stati gli anni ottanta.
Enola Gay è indubbiamente un pezzo pop, ma già nella sua scrittura ha qualcosa che non torna. È una hit radiofonica senza un ritornello cantato: quel riff di tastiera che tanto mi piaceva faceva da ritornello, ma non c’era nessuno a cantare. Andy McCluskey, il cantante e cofondatore degli Omd insieme a Paul Humphreys, canta solo i versi con quella voce distante e un po’ piatta così tipica di tanto post punk britannico e poi ammutolisce, si smaterializza proprio su quel ritornello così memorabile.
Le parole del pezzo sono ambigue, ma il titolo fa da chiave di lettura e ci aiuta a capire che “sono le 8:15 ed è l’ora che è sempre stata” si riferisce agli orologi fermi sull’ora della detonazione della prima bomba atomica. Un altro verso che suona raggelante è: “la mamma ora è orgogliosa del suo ragazzino?”. Non solo “Little Boy” era il nome che era stato dato alla bomba ma Enola Gay era il nome della madre del pilota dell’aereo che la sganciò, il colonnello Paul Tibbets.
Omd, Enola Gay, 1980
Enola Gay fu descritto come un pezzo contro la guerra, ma in realtà non lo era affatto: è una scheggia di quell’estetica post punk legata alla guerra fredda, un’estetica volutamente grigia, controllata e inespressiva, che presentava le cose in modo crudo e asettico, come su un vetrino da laboratorio. Enola Gay è sicuramente più vicina alle svastiche indossate dai punk che ai fiori nei fucili degli hippy: è un feticcio estetizzante svuotato di senso e usato solo per la sua forza evocativa, senza alcun giudizio di valore. E il fatto che sballonzoli su un irresistibile ritmo dance non fa che renderla ancora più straniante.
Tra Stockhausen e gli Abba
Gli Omd avevano già dimostrato, qualche mese prima, di essere più che capaci di scrivere un irresistibile pezzo pop quando, nel maggio del 1979, uscì il loro primo singolo Electricity. Il 45 giri fu un successo immediato: uno dei primi pezzi di pop elettronico ad avere un’ampia diffusione mainstream. I primi a esserne sorpresi furono proprio McCluskey e Humphreys, che si sentivano essenzialmente dei musicisti sperimentali e degli smanettoni che si costruivano da soli i loro rudimentali strumenti elettronici.
La loro origine era nel krautrock e nei Kraftwerk, la loro estetica era quella dei Joy Division per i quali in quel periodo aprivano i concerti, ma il pop radiofonico gli veniva facile, quasi in modo innato. “Musicalmente cercavamo di superare più limiti che potevamo”, ha detto Humphreys in un’intervista del 2020. “Un giorno durante una riunione alla Virgin un discografico ci ha detto: ‘Andiamo, ragazzi, siete Stockhausen o gli Abba?’. E io e Andy gli abbiamo risposto: ‘Non possiamo essere tutti e due?’”.
Il successo del primo album fu tale che l’etichetta glie ne chiese subito un secondo da far uscire entro natale e gli Omd dovettero mettere insieme Organisation in fretta e furia. Enola Gay era già pronta ed era stata esclusa dal disco di debutto perché considerata troppo leggera e gli altri pezzi erano per lo più abbozzi su cui i due musicisti si misero a lavorare di corsa. Il titolo stesso dell’album, Organisation, è un omaggio ai Kraftwerk che in una delle loro prime formazioni si chiamavano proprio così.
Dietro tutta quella cupezza post industriale si affaccia sempre, quasi a tradimento, un’anima pop
In quelle settimane di lavoro “matto e disperatissimo” arrivò, il 18 maggio del 1980, la notizia del suicidio di Ian Curtis, il cantante dei Joy Division, band amica e sodale degli Omd. McCluskey e Humphreys ne rimasero sconvolti e sul suono cupo e solenne di tutto l’album pesa il ricordo di quel momento terribile. Nonostante l’allegro refrain di Enola Gay (che accennava comunque all’olocausto nucleare) Organisation è un album triste, grigio, che sembra emergere come un relitto industriale dalle nebbie di qualche città abbandonata del nord del Regno Unito.
Statues, in particolare, sembra un omaggio postumo a Ian Curtis con quel verso di apertura: “Il modo in cui ti muovevi, non riesco a spiegarmelo”. La canzone sembra basata sul beat bossanova di una tastiera Casio da quattro soldi e forse proprio per questa sua estrema facilità di accesso entra nell’orecchio in modo così efficace. Eppure è tutto meno che è un pezzo semplice o allegro: è cupamente romantico, pieno di rimpianto e di echi di ricordi lontani. VCL XI (che prende il titolo dal nome di una delle valvole che si vedono sul retro della copertina dell’album Radio-Activity dei Kraftwerk) è invece un pezzo decisamente più allegro che arriva quasi a “swingare”. Le parole si sentono appena ma il ritmo è irresistibile e le tastiere sono usate in modo più percussivo che melodico, come se fossero delle marimba. Dietro tutta quella cupezza post industriale si affaccia sempre, quasi a tradimento, un’anima pop.
Quasi per gioco
The more I see you è l’unica cover dell’album (chiaramente un segnale del poco tempo che c’era) ed è uno standard degli anni quaranta di cui mi piace ricordare l’essenziale e dolcissima rilettura che ne fece Chet Baker nel 1958. Il pezzo era nato quasi per caso in studio da un’improvvisazione che somigliava moltissimo alla melodia del vecchio pezzo statunitense. Quasi per gioco McCluskey ci cantò sopra le parole di The more I see you e, nella fretta con cui la band stava lavorando in quelle settimane, il pezzo fu tenuto così. Gli Omd la considerano una delle cose più imbarazzanti della loro carriera, ma io la trovo una piccola perla nascosta. Amo molto il minimalismo dell’arrangiamento e il modo quasi sprezzante con cui McCluskey canta il pezzo, come se facesse per scherzo. The more I see you per me è soprattutto una premonizione delle cover che un decennio dopo avrebbe fatto Martin Gore dei Depeche Mode nel suo primo ep solista, Counterfeit.
Il pezzo che chiude l’album, Stanlow, è una lunga serenata dedicata a una centrale elettrica ed è il pezzo che meglio fa vedere come gli Omd stavano affinando la loro estetica. C’è molto Brian Eno, ma in lontananza si sentono già arrivare i Depeche Mode di Construction time again. È un pezzo di una semplicità e di un’asciuttezza assolute, eppure è un piccolo capolavoro di synth pop post industriale.
Organisation è un album dimenticato e poco considerato dai fan e dagli stessi Omd, che probabilmente ricordano con imbarazzo la velocità con cui avevano dovuto produrlo. Architecture & morality, il loro album migliore e quello per cui vengono tutt’ora giustamente ricordati, sarebbe uscito l’anno dopo, con più calma. Organisation è rimasto fagocitato dal successo planetario di Enola Gay eppure è il lavoro in cui elaborano un’estetica e un suono che poi sarebbero diventati la lingua franca di tantissimo pop elettronico degli anni successivi. Il suono di Organisation, quel modo di usare le tastiere elettroniche e di montare i pezzi per aggiunta di strati successivi, è diventato nel giro di pochi mesi il suono del synth pop inglese degli anni ottanta: Human League, Eurythmics, Depeche Mode, Yazoo e Soft Cell sono tutti partiti da lì, da quella assurda pretesa di essere Karlheinz Stockhausen e gli Abba insieme.
Orchestral Manoeuvers in the Dark
Organisation
Dindisc/Virgin, 1980
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