Quando si parla di un artista musicale, del suo talento, della sua storia, dei suoi successi o insuccessi, non ci si confronta quasi mai con l’infrastruttura che ha permesso a quell’artista di svilupparsi e di emergere.

Faccio parte della generazione nata con una sfiducia congenita nell’industria musicale. Ho cominciato ad ascoltare musica e a comprare dischi a metà anni ottanta, epoca di vacche grassissime per le case discografiche. Si trattava di aziende ricche e avide che non si rendevano conto di essere sempre più pericolosamente dipendenti dai blockbuster (Like a virgin, Born in the Usa e Purple rain uscirono tutti nel 1984 con l’obiettivo industriale di ripetere i numeri impossibili di Thriller di Michael Jackson) e che si sentivano rassicurate dal fatto che non valeva la pena d’investire troppo su artisti nuovi e dall’esito incerto, visto che grazie al compact disc (il nuovo supporto pubblicizzato come indistruttibile ed eterno) gli introiti erano garantiti dal catalogo che sarebbe stato sistematicamente rivenduto a chi già aveva in casa vinili e audiocassette. E poi, senza sentirmi coinvolto più di tanto, ho vissuto il loro inesorabile e triste declino in un’epoca digitale che non hanno voluto o saputo capire.

La visione della Capitol records
Eppure c’era stata un’epoca diversa, un’epoca gloriosa in cui le case discografiche investivano e avevano coraggio, e capitava che fossero fondate non da manager ma da artisti e amanti della musica. Era il caso della Capitol records, fondata nel 1942 dal paroliere e compositore Johnny Mercer (l’autore di Autumn in New York e di Moon river, solo per dare due titoli) e finanziata da Buddy DeSilva (compositore e manager). La Capitol è stata la prima etichetta discografica di un certo rilievo fondata nella costa ovest degli Stati Uniti ed è stata una delle prime a capire la portata rivoluzionaria del long playing e la sua importanza non solo tecnologica ma anche culturale per il pubblico del dopoguerra. Il 1942 non era l’anno più felice per darsi alla discografia: la guerra aveva reso carissimo e irreperibile lo shellac (la resina necessaria per produrre la gommalacca dei vecchi dischi a 78 giri) e i musicisti erano in sciopero perenne. Eppure la Capitol aveva una visione che si rivelò vincente.

Tra gli artisti che la nuova etichetta lanciò e portò al successo nell’immediato dopoguerra c’erano due vecchi amici dell’epoca gloriosa delle big band dei primi anni quaranta: Frank Sinatra e Jo Stafford (1917-2008). I due erano i cantanti solisti della celebre orchestra di Tommy Dorsey. Sinatra e Stafford, pur diversissimi, avevano una tecnica di canto analoga: l’uso della voce simile a quello di uno strumento a fiato, la ricchezza del timbro e la capacità di alternare romanticismo e ironico distacco. Entrambi usavano pochissimo il vibrato e avevano un tono intimo e confidenziale più che declamatorio.

Una puntata del Jo Stafford show, 1954

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Jo Stafford fu una delle prime artiste a essere messe sotto contratto dalla Capitol e fu una specie di cavia per capire come vendere certi cantanti dell’anteguerra a una nuova, più dinamica generazione di pubblico. Stafford non era solo una cantante eccellente (seriamente: ascoltatela subito e ditemi se avete sentito una voce più ricca di sfumature e bella della sua), ma anche un’artista coraggiosa e pronta a tutto. E il suo nuovo discografico, Johnny Mercer, ebbe un’idea bislacca: perché non farle cantare pezzi ancora più vecchi di quelli amati dal pubblico di prima della guerra?

Un repertorio di cento anni prima
Fu allora, molto prima che il cosiddetto American folk music revival arrivasse al suo apice negli anni sessanta, che Jo Stafford, nel 1948, cantò un intero album di canzoni tradizionali statunitensi. Quando diciamo album intendiamo un set di tre dischi a 78 giri raccolti in tre tasche di carta contenute in una copertina rilegata. Solo nel 1950 il disco fu fatto uscire di nuovo, e con notevole successo, come long playing.

L’idea nasceva dalla decisone, allora sorprendente, che Stafford aveva preso, nel 1947, di cantare queste canzoni tradizionali (scritte per lo più cento anni prima, ma in certi casi anche secoli prima) durante il suo popolarissimo programma radiofonico. All’epoca i cantanti “della radio”, ovvero i cantanti pop, eseguivano solo brani recenti o standard già famosissimi, ma un giorno Jo Stafford decise di cantare He’s gone away, un’aria dell’ottocento che si credeva originaria dei monti Appalachi. La risposta del pubblico, che all’epoca scriveva lettere alla radio più che telefonare, fu molto calorosa: le richieste per riascoltare quella vecchia canzone superavano quelle per i pezzi del momento.

Arrangiamenti rivoluzionari
L’idea però davvero rivoluzionaria era quella di presentare queste vecchie canzoni, che solitamente erano accompagnate solo da una chitarra, un banjo o un dulcimer, con arrangiamenti orchestrali sontuosi curati da Paul Weston che, nel 1952, diventò il marito di Stafford. Proprio Weston di lei scrisse: “Miss Stafford è una cantante e non solo un’esecutrice di canzoni. Le sue radici familiari che arrivano fino a giù nel Tennessee le danno l’autorevolezza vocale per interpretare quelle canzoni secondo il loro spirito originario”.

L’album si apre con Shenandoah, una canzone probabilmente cantata nell’ottocento dai cercatori d’oro e dai commercianti di pellicce che dal Canada scendevano lungo il fiume Missouri. Ha la struttura dei vecchi canti dei marinai, ma Jo Stafford la fa trascendere in un’altra dimensione, quasi metafisica. Ancora più trascendente è la sua Wayfaring stranger, la canzone del povero pellegrino stanco che attraversa a piedi distanze lunghissime per “tornare a casa”. Quando Stafford canta sembra quasi un’elegia funebre: il ritorno a casa “per rivedere il padre” è l’ultimo viaggio verso il paradiso. L’interpretazione è sconvolgente: senza una sbavatura, senza un’esagerazione, senza l’ombra di un vibrato (il più ovvio stratagemma per commuovere) porta letteralmente l’ascoltatore a casa con sé.

Eleganza elisabettiana
Black is the color of my true love’s hair (qui semplicemente Black is the color) è un’altra canzone tradizionale degli Appalachi, ma la sua origine, secondo l’etnomusicologo Alan Lomax, è scozzese. La melodia ha un’eleganza elisabettiana che Jo Stafford asseconda ed esalta con la consueta naturalezza: potrebbe essere accompagnata solo da un liuto e sarebbe comunque sontuosa. Nina Simone è stata tra le altre interpreti più famose di questo vecchio pezzo ma la sua versione è totalmente diversa, direi opposta fin dalle intenzioni iniziali.

Barbara Allen è un’antica canzone inglese risalente al seicento e poi diffusissima in Nordamerica. È una ballata sull’amore disperato di una bella ragazza che viene chiamata sul letto di morte di un giovane nobiluomo. Quando lei arriva lui è già morto ma lei ormai ne è perdutamente innamorata e canta che il giorno dopo lo seguirà nella tomba. Stafford è ancora una volta stellare: sembra cantare in stato di trance e accarezza ogni nota di questa antica canzone dai toni gotici con sensualità e abbandono. American folk songs non è solo una straordinaria prova di cantante e di interprete, ma anche una pietra miliare della discografia americana del dopoguerra.

Jo Stafford
American folk songs
Capitol, 1948 (in formato lp, 1950)

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