Oggi che la pornografia è onnipresente e pervasiva, quasi del tutto normalizzata e quotidiana grazie allo streaming, è sempre più difficile abbracciarne a pieno il portato estetico al di là della sua funzione principale. La pornografia è talmente penetrata nell’immaginario comune che quando ci capita di entrare in una palestra o di guardare un episodio del Grande fratello ci possiamo chiedere dove abbiamo già visto un certo tatuaggio, un certo piercing, un certo taglio di capelli, una certa manicure fantasiosa, un certo abbigliamento, ed è molto probabile che lo abbiamo già visto in un video porno.
Anche certe soluzioni di arredamento, certa biancheria per la casa, certe lampade, è molto probabile che le abbiamo già viste su OnlyFans prima ancora che da Ikea o da Mondo Convenienza: la pornografia è ormai il luogo in cui prende forma inconsciamente il gusto comune, che lo vogliamo o no. Le case che vediamo nella maggior parte dei porno, con il loro grès porcellanato, gli split dell’aria condizionata a vista, i mega schermi tv e le vedute di New York incorniciate, hanno quell’aria asettica tra lo show room e la casa vacanze che ha la maggior parte degli spazi che ci troviamo ad attraversare durante la giornata. È divertente pensare che certe scelte di abbigliamento, di bellezza o di arredamento, inconsciamente, ci arrivino da video porno che guardiamo più o meno di nascosto nelle intercapedini delle nostre giornate.
La pornografia ha da sempre anche una sua colonna sonora e anche quella è portatrice di una notevole carica estetica: c’è il dialogo (per chi lo ascolta), ci sono i suoni e i rumori del sesso (ovviamente) e poi c’è la musica, che nel caso del porno casalingo può essere una playlist di reggaeton qualsiasi lasciata in sottofondo, ma nel caso del porno più professionale è di solito un’accozzaglia di loop e di beat messi insieme in fretta e furia.
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La musica dei film pornografici però è una cosa seria: è la cosa più vicina al classico concetto di musica incidentale, musica cioè creata, fin dal seicento, per il teatro di parola. Una musica che punteggi l’azione, la sottolinei ma non distragga troppo lo spettatore: deve essere solo blandamente descrittiva e mai troppo invadente. Nel cinema vero e proprio i compositori di musica da film hanno molto più spazio di manovra (e sicuramente budget più interessanti).
Nel porno la musica è un elemento come gli altri, come la biancheria dei letti, l’intimo o i tatuaggi e le manicure di attori e attrici. Ma in più serve a dare ritmo e a dare all’attività umana più slegata dallo scorrere del tempo, il sesso, un senso illusorio di durata, di svolgimento e di conclusione. Nel film pornografici la musica è abbastanza fondamentale. E ha una funzione estetica ben precisa.
Un genio dei synth
Patrick Cowley (1950-1982), nella sua breve vita, è stato uno dei pionieri della musica dance. Genio dei sintetizzatori fin da ragazzino, si è ritrovato, da studente, proiettato nella dionisiaca scena gay della San Francisco di metà anni settanta. Era un dj ma smanettava anche con le macchine, usava l’elettronica come uno strato di colore in più da aggiungere ai lunghissimi edit dei pezzi disco che mandavano in estasi saune e discoteche, i santuari del sesso gay nell’epoca a cavallo tra le rivendicazioni di Stonewall e quella piaga epocale che fu l’aids.
Mentre Giorgio Moroder inventava in Europa la disco elettronica con Donna Summer, Patrick Cowley a San Francisco accelerava e robotizzava la disco music, trasformandola in quella che poi sarebbe stata nota come Hi-Nrg. Nel 1977 Cowley è anche intervenuto su I feel love, canzone simbolo della coppia Donna Summer/Moroder, trasformandola in un’estatica cavalcata lunga più di 15 minuti.
La sua più grande fortuna fu quella di incontrare un artista straordinario di nome Sylvester, che era allo stesso tempo cantante gospel, drag queen, disco diva, agitatore culturale e performer. Per Sylvester Cowley produsse una canzone epocale, You make me feel (mighty real), l’unica vera risposta americana a I Feel love di Donna Summer. Se Donna Summer tendeva a cantare come un angelo, andando sempre più in falsetto, per librarsi sul robotico ritmo elettronico di Moroder, Sylvester, su un beat molto più accelerato, si lanciava in una performance gospel pagana. Nessuno è stato capace di coniugare sacro e profano come Sylvester in You make me feel (mighty real), un pezzo capace di farti sentire tanto l’incenso della chiesa quanto il popper che veniva inalato in abbondanza nelle discoteche gay di quell’epoca.
Patrick Cowley sperimentava molto con le macchine: spesso è considerato un epigono di Giorgio Moroder e viene raccontato come il musicista che traghettò la disco dagli anni settanta nei primi anni ottanta. In realtà la sua parabola è stata abbastanza parallela a quella di Moroder e la riscoperta, nel 2013, di alcuni vecchi pezzi che lui aveva composto per una casa di produzione pornografica gay rivelano l’anima profondamente sperimentale ed europea della sua musica. I nastri che fanno parte della raccolta School daze (dal titolo di un film porno del 1980 di John Coletti prodotto dalla Fox Studio) raccolgono musica sperimentale che Cowley aveva realizzato praticamente da solo dal 1973 al 1981.
Corpi lucidi e scolpiti
Drew Daniel, parte del duo elettronico Matmos, recensendo questo album per la rivista britannica The Wire fa un’interessante riflessione sulla musica prodotta per i film pornografici. “La dinamica della musica per i porno è paradossale”, scrive Daniel, “dev’essere capace di accompagnare e servire una scena su cui non ha alcun controllo. Come un fluffer fuori scena (il fluffer è quella mitica figura professionale dei set dei film porno addetta a mantenere le erezioni degli attori tra una scena e l’altra) deve contribuire a tenere costante la temperatura carnale senza però mai rubare la scena. Lo stesso paradosso tra morbido e duro è alla base delle musiche che Patrick Cowley realizzò per la Fox Studio”.
Le composizioni di Cowley sono fondamentalmente muzak, ovvero musica di sottofondo, ma non sono ambient, o musica-tappezzeria, perché devono assolvere a una funzione ben precisa, quella di dare la dimensione del tempo e del ritmo a una lunga scena in cui due o più uomini fanno l’amore in modo accuratamente e artificiosamente coreografato. Il suono di Cowley è strettamente legato all’estetica della pornografia gay statunitense dei primi anni ottanta: atletici ragazzi biondi, poco vestiti fin dalla prima scena, incontrano uomini baffuti in giacca di pelle e pantaloni aderentissimi in scenografie traballanti e bizzarramente illuminate; stanze da letto con finestre cieche percorse da bagliori rosa e verdi e abat-jour assurde che non fanno luce. La pelle è sempre lucida, gli occhi sempre persi in un altrove fantasmatico e il dialogo è, ovviamente, demenziale e ridotto al minimo. I corpi lucidi e scolpiti dalla palestra sono ripresi secondo un gusto che è una versione pop, banalizzata e oggi vagamente malinconica, dei film di propaganda nazisti di Leni Riefenstahl sulla superiorità degli atleti ariani, un’estetica che è finita dritta dal porno gay ai servizi di moda di metà anni ottanta di fotografi come Bruce Weber e Herb Ritts.
Creare una colonna sonora sensata e coesa per questi film era un’impresa che solo un visionario e uno sperimentatore come Patrick Cowley poteva portare a termine. Fin dai titoli (che il musicista aveva scritto a penna sulle custodie dei nastri) si capisce che la musica doveva suggerire ampi spazi mentali di piacere immaginario, più che dare un’idea mimetica del sesso. L’immagine pornografica basta a se stessa e Cowley lo sa bene quando intitola i suoi pezzi Out of body (“Fuori dal corpo”), Journey home (“Viaggio verso casa”) o Seven sacred pools (“Sette vasche sacre”). La musica è spesso rallentata e sognante, percorsa da una discreta ritmica interna e di rado si apre in qualcosa di simile a una risoluzione o a una conclusione. È una corsa al rallentatore verso un orgasmo che non arriva mai, proprio per lasciare al money-shot (il momento dell’eiaculazione) tutto il suo spazio puramente e oscenamente visivo, senza interferenze sonore.
Ascoltare questa musica in cuffia e slegata dal suo contesto (due vecchi film porno intitolati School daze e Muscle up) è un’esperienza notevole. Non è ambient music né dance, non è musica da film né da jingle pubblicitario. Zygote, il brano che apre l’album, è il più energico e fa quasi da introduzione, e Mocking dream è un pezzo techno immaginato molto prima che esistesse la techno, uno sguardo fulmineo sulla musica di un futuro che Patrick Cowley (che morirà di aids nel 1982) non vedrà mai.
Tra krautrock e musique concréte
La musica di School daze a tratti sembra più radicata nella musique concrète, i primi esperimenti di musica elettronica e di collage sonori, e nel krautrock che in quella disco music che era la sua specialità. È un po’ il lato oscuro di Patrick Cowley e, anche se può far sorridere pensando alla destinazione di questa musica, il suo lato più intimo e insulare.
Qualche anno fa è stato pubblicato anche il diario sessuale di Patrick Cowley con il titolo programmatico di Mechanical fantasy box book (”Il libro della scatola della fantasia meccanica”). È a tutti gli effetti un libro pornografico in cui la corsa verso un piacere mai soddisfatto, attraverso incontri con centinaia di partner diversi, assume, pagina dopo pagina, un carattere talmente rarefatto e ripetitivo da sembrare astratto. Le innumerevoli combinazioni sessuali e le orge che Cowley descrive ricordano la tassonomia illuminista di certe pagine delle 120 giornate di Sodoma del marchese de Sade. Non si parla più di incontri tra corpi, tra persone, ma di qualcosa di talmente stilizzato da sembrare un rituale. E l’incredibile musica elettronica, magmatica e inafferrabile, che Cowley aveva composto da solo per i film della Fox Studio ci porta in un mondo in cui il sesso tra uomini diventa talmente sognato e allucinato da trasfigurarsi in un fatto puramente estetico. School daze è il suono della grande, disperata vitalità e creatività di una comunità lgbt che non sapeva ancora di avere le ore contate.
Patrick Cowley
School daze
Dark Entries / Honey Soundsystem records, 2013
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