In un piccolo slargo subito a sud della sede della Borsa di New York c’è una statua di bronzo alta quasi tre metri e mezzo che si chiama Charging bull, “toro alla carica”. Il suo autore è Arturo Di Modica, uno scultore nato in Sicilia, che volle dare una risposta patriottica al crac della borsa del 1987 e la fece mettere vicino a Wall street a sue spese e senza il permesso delle autorità. Di Modica la definì “un simbolo della forza del popolo americano”. Dopo un po’ il comune la fece rimuovere, ma le proteste costrinsero le autorità a rimetterla al suo posto. E così è diventata il simbolo di Wall street.
I tempi sono cambiati. Dal 17 settembre, giorno d’inizio delle manifestazioni di Occupy Wall street – cioè da quando centinaia di giovani si sono accampati in un giardinetto di proprietà di un’impresa a qualche strada di distanza dal toro – la statua è guardata a vista notte e giorno dalla polizia di New York.
“La verità è concreta”, ha scritto una volta Bertolt Brecht. E via via che la reazione alle proteste passava dalla sorpresa e dalla brutalità della polizia (che ha sicuramente contribuito a estendere la rivolta) alla rabbia, si è capito che la città, pur sbandierando da sempre il suo cosmopolitismo, la sua tolleranza e la sua irriverenza, non è disposta a sopportare nessuna minaccia seria a Wall street. Le manifestazioni sono cominciate meno di una settimana dopo il trionfalismo listato a lutto delle commemorazioni per il decennale degli attentati dell’11 settembre 2001. Ma le proteste di Occupy Wall street hanno dimostrato che dopo l’11 settembre New York non sa più reagire in maniera sensata a manifestazioni pacifiche: è capace solo di affrontare atti terroristici o manifestazioni che minacciano di prendere una piega violenta.
Nel complesso le proteste sono state sorprendentemente pacifiche e mentre molti dei giovani di questo movimento sono indistinguibili, per il loro aspetto, dai militanti noglobal di tutta l’Europa occidentale, oggi Lower Manhattan è lontanissima dalla Seattle del 1999 o dalla Genova del 2001. Se violenza c’è stata, è venuta dalla polizia, che si è comportata come se i manifestanti fossero una minaccia per lo stato e andassero tenuti strettamente sotto controllo. Ogni volta che parte un corteo, viene affiancato e arginato da file di agenti delle unità antisommossa, che indossano giacche a vento con sopra scritte come Disorder Control e filmano tutto con i telefonini o le videocamere.
Le strade vengono chiuse per consentire ai cortei di sfilare, ma i manifestanti sono costretti a usare solo una corsia, mentre le altre due e il marciapiede sono occupati dalle forze dell’ordine. Perfino al culmine delle proteste contro la guerra del Vietnam l’atteggiamento delle autorità di New York era più misurato. Occupy Wall street è l’espressione finora più significativa di un’avversione diffusa al capitalismo che, negli Stati Uniti, non si è mai manifestata neanche dopo che la crisi finanziaria del 2008 ha rivelato agli americani che Wall street pensava solo a saccheggiare sistematicamente l’economia. Ma la reazione a queste proteste mostra chiaramente la portata dei danni inflitti ai nostri diritti di cittadini dopo l’11 settembre.
Per il momento né gli arresti di massa né il rancore dell’amministrazione comunale, guidata dal sindaco multimilionario Michael Bloomberg, né l’apparente decisione dei mezzi di comunicazione – compresi giornali di solito progressisti come il New York Times – di minimizzarne la portata, hanno impedito che le proteste si allargassero sempre più. Resta da vedere se questo movimento, ancora embrionale, darà vita a qualcosa di più solido e duraturo, alla faccia di ciò che resta della sinistra americana, che continua a scambiare i fari di un treno in arrivo per la luce in fondo al tunnel, e continua a cullare la speranza di veder diventare il movimento una specie di Tea party di sinistra.
Una cosa è chiara: più le manifestazioni crescono, e più diventa scomoda la posizione del presidente Obama, pronto a cominciare la campagna per la rielezione. Il suo successo del 2008 si deve in parte al sostegno ricevuto da Wall street. Oggi la comunità finanziaria gli è ostile ed è pronta a sostenere qualsiasi candidato repubblicano minimamente credibile. Da quarant’anni almeno la tragedia del Partito democratico è di avere una base elettorale di centrosinistra (almeno secondo gli standard statunitensi), ma di dipendere dai soldi di Wall street e di Hollywood. I candidati democratici che sono riusciti a conquistare la presidenza hanno sempre dissimulato questa contraddizione almeno fino all’elezione: dopo, di solito, si sono spostati sulle posizioni di Wall street, come ha fatto lo stesso Obama, nonostante ciò che pensa di lui il mondo dell’alta finanza.
Durante la prossima battaglia elettorale, però, questa manovra rischia di essere impossibile. La questione è se Obama sarà abbastanza coraggioso da schierarsi con i manifestanti. La sua tendenza a fare concessioni sempre più generose all’opposizione repubblicana in congresso sembra indicare che la risposta è no. Ma forse la realtà non gli lascerà scelta.
*Traduzione di Marina Astrologo.
Internazionale, numero 919, 14 ottobre 2011*
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it