Attenzione. Questo articolo contiene spoiler.
Dobbiamo riconoscerlo alla sceneggiatrice e regista Greta Gerwig: con Barbie è riuscita a trovare un approccio iniziale intelligente al suo soggetto. L’apertura del film sulla bambola della Mattel, famosa (e famigerata) per le sue tette audaci – film peraltro realizzato dalla Mattel in collaborazione con la Warner Brothers – è intelligente e divertente.
Trae la sua portata ironica e magniloquente da 2001: Odissea nello spazio, a cui si aggiunge la frase con cui si aprono miliardi di temi di cattivi studenti, “Dall’inizio dei tempi”, e stabilisce che prima dell’arrivo di Barbie le bambine di tutte le epoche erano costrette a usare bambole primitive con cui non potevano fare molto altro se non giocare a essere una mamma. Essere una madre può essere divertente “per un po’”, spiega la voce narrante di Helen Mirren, ma a un certo punto ci si stufa.
“Chiedi a tua madre”, dice con tono severo.
Poi una gigantesca Barbie Originale appare davanti a un gruppo di bambine che la fissano a bocca aperta, alta e iconica come una statua moai dell’isola di Pasqua, con indosso il suo costume da bagno senza spalline a strisce bianche e nere abbinato a occhiali da sole cat eye bianchi e agli eterni tacchi alti. Un divertimento elegante e civettuolo: ecco cosa promette la Barbie Originale, la fenomenale versione del 1959 disegnata da Ruth Handler, fondatrice della Mattel assieme al marito e socio in affari Elliot e ad Harold “Matt” Matson (da notare la combinazione dei nomi Matt ed Elliot per creare il nome dell’azienda, senza spazio per quello di Ruth).
Vera e propria quintessenza degli imprenditori dell’epoca della seconda guerra mondiale, i tre hanno mosso i primi passi alla fine degli anni trenta nel settore delle materie plastiche, in particolare la lucite e il plexiglass – quest’ultimo largamente usato nella costruzione di aerei e sottomarini da combattimento – per creare complementi d’arredo innovativi. Da lì sono passati al florido mercato dei giocattoli degli anni quaranta.
Barbie ha preso il nome della figlia degli Handler, Barbara, come spiega verso la fine del film la versione materna di Ruth Handler interpretata da Rhea Perlman (il bambolotto Ken ha preso il nome del loro figlio Ken ma, come osserva nel film l’amministratore delegato della Mattel interpretato da Will Ferrell, “non ci importa mai davvero di Ken”). Quello a cui non si fa alcun riferimento è il fatto arcinoto che Barbie in realtà è la rivisitazione di Bild Lilli, una bambola tedesca ben più maliziosa della fine degli anni quaranta che Ruth Handler aveva scoperto durante un viaggio in Europa e che era nata come personaggio in una striscia a fumetti pubblicata sul quotidiano scandalistico di destra Bild.
Lilli era una squillo arguta e sexy che viveva della generosità di una schiera di spasimanti, famosa per i suoi abiti eleganti che la rendevano “la star di tutti i bar”. La bambola, come la sua derivata Barbie, era fornita di abiti e accessori di alta moda e all’inizio era un regalo scherzoso per adulti considerato inadatto ai bambini. Questo finché non è stata adattata per i bambini in Germania e sono stati comprati i diritti per produrla anche in altri paesi.
I capelli neri, l’eyeliner marcato e l’ombretto blu conferivano alla Barbie originale un tocco più oscuro e notturno che ricordava alcune delle caratteristiche associate a Bild Lilli, ma la Mattel non voleva assolutamente che quel retroscena entrasse nel film. Gerwig sceglie di farla diventare una bionda più scialba, più da spiaggia, più ripulita, in linea con la Barbie Stereotipata degli ultimi modelli, interpretata benissimo da Margot Robbie.
La lunga e creativa sequenza introduttiva di Gerwig ci porta ai giorni nostri a Barbieland, dove centinaia di modelli diversi della bambola sviluppati nel corso dei decenni vivono insieme in un paradiso di plastica rosa, fanno festa nella Casa dei sogni di Barbie dove “ogni sera è la sera delle ragazze” e al tempo stesso gestiscono una società costruita per loro. Ricorda, adesso c’è una Barbie per tutte le professioni: Barbie Insegnante, Barbie Dottoressa, Barbie Operaia, Barbie Giudice della corte suprema, Barbie Presidente.
I personaggi delle bambole maschili che accompagnano Barbie, con in prima fila Ken Originale (Ryan Gosling), il ragazzo da spiaggia glabro, abbronzato, noioso e senza genitali, e poi tutti gli altri Ken – interpretati da Simu Liu e da una serie di altri attori di bell’aspetto che si scatenano in divertenti coreografie in tutto il finto paesaggio dai colori vivaci – sanno qual è il loro posto in un mondo incentrato su Barbie. Non vivono da nessuna parte, per lo più ciondolano nei pressi di onde rigide perennemente in procinto di infrangersi sulla spiaggia di Barbieland, e Ken è convinto che “spiaggiarsi” sia il suo lavoro. Di tanto in tanto i Ken esprimono la loro rivalità per le attenzioni di Barbie, nonché qualche frustrazione per il posto umile che è loro riservato nella società, e lo fanno in un modo confusamente sessuale, minacciandosi l’un l’altro di “spiaggiarsi”.
Barbie sceglie di indossare i tacchi rosa tutto il giorno, ma naturalmente non si tratta di una vera scelta
Poi, all’improvviso, mentre si scatena come al solito al ritmo della musica disco in una serata tra ragazze nella sua Casa dei sogni, una sorridente e trasognata Barbie dice alle sue altrettanto sorridenti e trasognate amiche, “Pensate mai alla morte?”.
Be’, è un momento davvero bello, non c’è che dire.
Riassume perfettamente l’idea del delizioso fenomeno detto “Barbienheimer”, tutti quei meme e finti poster che mescolano i film Oppenheimer e Barbie, ispirati dalla loro apparentemente incongrua uscita estiva (negli Stati Uniti ndr) nello stesso giorno. Per esempio, un’inquadratura rosa e sorridente del viso di Barbie sulla quale si legge la famosa frase pronunciata da Oppenheimer quando il test atomico ha dimostrato la sconvolgente potenza della sua arma di distruzione di massa: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi”.
Due saghe a confronto
“Capirò Oppenheimer se non ho visto prima Barbie?”, si legge in un altro di questi meme fantastici, dimostrando l’intuizione che tutti hanno avuto all’istante: al di là dell’estremismo dei loro contrasti superficiali, le due saghe della guerra fredda statunitense, Barbie e la bomba atomica, avevano molti punti in comune l’una con l’altra. Una rappresenta la solare e consumistica negazione di ciò che abbiamo fatto dell’ascesa della nostra superpotenza nel mondo postbellico, l’altra il desolato orrore della realtà di ciò che abbiamo fatto.
Se Barbie fosse riuscito a mantenere in un modo o nell’altro il fremito di quel momento, sarebbe stato un film epocale. Ovviamente non ci è riuscito. C’è una lunga spiegazione di come una bambola di plastica che per qualche ragione è animata possa pensare alla morte, il primo di molti noiosi tentativi della trama di dare un senso a qualcosa che non potrà mai avere un senso letterale, ma solo un senso emotivo.
A quanto pare ciascuna delle bambole di Barbieland è legata a una bambina umana che gioca con quella bambola nel mondo reale. America Ferrera e Ariana Greenblatt sono la madre e la figlia adolescente che oggi si sentono lontane tra loro ma un tempo hanno giocato con la stessa Barbie Stereotipata. In un modo o nell’altro l’angoscia esistenziale della madre e i suoi disegni di “Barbie pensieri di morte”, hanno aperto un portale nel mondo di Barbie, e questo ha fatto sviluppare a Barbie delle qualità umane.
Per quanto ingombrante, questa trama dà il via al divertente spettacolo di quella che potremmo definire la “Barbie faticosamente umana”. Si sveglia tutta intontita, con l’alito pesante e invece di planare giù dal primo piano della sua Casa dei sogni, come fa ogni mattina, precipita con un goffo capitombolo. Ha la cellulite e i capelli senza volume. E la cosa peggiore di tutte è che i suoi famosi piedi a forma di tacco a spillo hanno perso il loro arco innaturale e sono diventati completamente piatti, provocando urla di orrore nelle altre Barbie: “Non indosserei mai i tacchi se i miei piedi avessero questa forma!”, esclama.
Barbie si consulta sul da farsi con la riservata Barbie Stramba (Kate McKinnon), che è il risultato di quando le bambine giocano in modo troppo violento con le loro Barbie, tagliandogli i capelli, disegnando i loro visi con i pennarelli e mettendole in spaccate permanenti che sembrano abbastanza dolorose. Barbie Stramba offre a Barbie Stereotipata una scelta tipo quella tra pillola rossa e pillola blu in Matrix, qui tra scarpe rosa con i tacchi alti e Birkenstock: dimenticare tutto e tornare alle cose così com’erano o scoprire la verità. Barbie sceglie di indossare i tacchi rosa tutto il giorno, ma naturalmente non si tratta di una vera scelta. Barbie deve fare un viaggio in una realtà spiacevole per rimettere a posto le cose.
All’inizio il viaggio di Barbie nel mondo reale – accompagnata da un Ken inconsapevolmente devoto – mantiene un certo livello di piacevolezza. Anche se Los Angeles sembrerebbe il luogo di plastica ideale in cui i due potrebbero approdare, con i loro completini da rollerblade coordinati in colori fluorescenti, per un po’ il film si trascina con le reazioni sconvolte di Barbie alle realtà più dure in cui si imbatte (a partire dalle molestie sessuali).
Le adolescenti della generazione Z la disprezzano, ritenendola una grottesca rappresentazione fuori moda di valori conservatori, circondate come sono ancora oggi dall’assurda oppressione delle crudeltà patriarcali. Al tempo stesso Ken, che si ritrova per la prima volta in una società dominata dai maschi, è sopraffatto dalle opportunità del patriarcato e torna di corsa a Barbieland per trasformarla in un Kendom, un’idea che culmina con un piano di grandissima attualità, ossia prendere il controllo della corte suprema e riscrivere la costituzione.
Alla fine Barbie viene caricata su un veicolo anonimo e scortata al quartier generale della Mattel. Lì scopre che nel mondo reale perfino la Mattel è amministrata da uomini e che tutto quello che lo stupido e freddo amministratore delegato interpretato da Will Ferrell vuole da lei è farla “tornare nella scatola”. Con la sua fuga dagli uffici della Mattel il film scivola in un tentativo sempre più confuso, contorto e goffo di far evolvere la trama ed esprimere quelli che Gerwig e Mattel considerano dei messaggi appropriati. Ci sono i dogmi familiari, inefficaci e pseudofemministi grazie ai quali la Mattel ha incassato soldi per decenni, assieme a un nostalgico chiedersi “ma com’è possibile che i nostri prodotti di consumo siano cattivi” in cui Barbie diventa una sorta di elemento che per magia e in modo incondizionatamente progressista unisce generazioni di madri e figlie.
È un peccato, ma forse è straordinario che questo riesca comunque a essere un bel film in molti dei suoi passaggi. Dopo tutto è pur sempre uno dei tanti film grotteschi, prestigiosi e filocapitalisti su una proprietà intellettuale realizzati per celebrare prodotti di successo come Air, Tetris, BlackBerry e Flamin’ hot, tutti usciti nel 2023. E Mattel ci sta minacciando con molti altri film costruiti attorno ai suoi giocattoli, come Hot Wheels, Magic 8 Ball, Rock ‘Em Sock ‘Em Robots, Chatty Cathy e Betsy Wetsy.
Ma se si tratta di scegliere tra Oppenheimer e Barbie io so che starò dalla parte di Barbie, anche solo per la scena iniziale e per il momento musicale I’m just Ken (a un certo punto dice “sono destinato a vivere e morire una vita di bionda fragilità?”). Di questo se non altro sono sicura.
È strano il successo esplosivo e da record di Barbie e Oppenheimer, presentati come una salvezza per l’industria cinematografica proprio quando l’imponente sciopero indetto da Wga e Sag-Aftra minaccia di fermare Hollywood.
Un serio boicottaggio di questi film avrebbe forse spinto l’industria cinematografica a un punto di crisi tale da sfociare in un accordo dignitoso per sceneggiatori e attori, evitando un futuro cinematografico davvero terrificante. D’altro canto, l’industria cinematografica statunitense sta avendo da così tanto tempo difficoltà a realizzare film interessanti che a volte viene da chiedersi se valga davvero la pena salvarla.
Eppure siamo abituati ad avere davanti solo brutte scelte. Sembra che la scelta sia sempre tra tacchi alti rosa e Birkenstock, con le Crocs come possibile terza opzione. Ma se provate anche solo un tenue amore per la grande era hollywoodiana dei film di genere, non potete non avvertire un minimo di eccitazione all’idea che finalmente stia accadendo qualcosa nel mondo dei film di successo.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista statunitense Jacobin.
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