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Le molte facce dei jihadisti europei

Il quartiere Molenbeek, a Bruxelles, il 23 gennaio 2016. (Andrew Testa, The New York Times/Contrasto)

Il jihadismo in Europa sembra costantemente in vantaggio rispetto ai servizi di sicurezza che continuano a operare al livello nazionale, nonostante un’accresciuta cooperazione. Paradossalmente il terrorismo unifica l’Europa rafforzando il sentimento di un’identità comune tra cittadini, che vivono gli attentati di Parigi e di Bruxelles come se fossero avvenuti nel loro paese. Era già parzialmente vero dopo gli attentati in Spagna nel 2004 e nel Regno Unito nel 2005. Da allora il panorama del terrorismo europeo ha vissuto molti cambiamenti, dei quali dobbiamo tenere conto se vogliamo combatterlo in modo più efficace.

Bisogna notare innanzitutto l’esistenza di “sottospazi” terroristici che si sono formati indipendentemente dalle frontiere nazionali, ma che restano circoscritti ad alcuni paesi o zone specifiche. Il primo sottospazio è quello franco-belga. I terroristi belgi che hanno preparato gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi sono stati spinti anche da un sentimento antifrancese che risale alla storia dei paesi d’origine delle loro famiglie, cioè ex colonie francesi quali il Marocco e l’Algeria.

La seconda caratteristica dei jihadisti dopo il 2013 è il loro rapido aumento: circa cinquemila giovani sono partiti in Siria per unirsi principalmente al gruppo Stato islamico (Is), lo “stato” che ambisce a ricreare il califfato in Siria e Iraq. Sarebbero tra i 1.200 e i 1.500, e forse più, ad aver lasciato la Francia. Nel decennio precedente il numero di jihadisti francesi non raggiungeva le duecento persone. Tra coloro che hanno ricevuto un addestramento in Siria o in Iraq, alcuni sono più abili a maneggiare gli esplosivi rispetto ai goffi “terroristi casalinghi” degli anni duemila, la cui formazione avveniva via internet.

La terza caratteristica è l’aumento di reclute provenienti dalla classe media. Prima la maggior parte dei jihadisti erano giovani frustrati e rabbiosi, provenienti spesso dalle periferie. Oggi tra di loro ci sono giovani più benestanti, dotati di maggiori risorse intellettuali e culturali. Non si possono facilmente definire degli esclusi poiché non hanno né i modi né il linguaggio del corpo delle periferie. Inoltre non sono schedati dai servizi d’informazione, perché non hanno precedenti penali. Possono disporre di risorse economiche più ingenti e la loro adesione all’Is assicura a questo gruppo dei mezzi finanziari di cui Al Qaeda non disponeva.

Tra i jihadisti ci sono sempre più convertiti. Il loro numero è notevolmente aumentato dal 2013, fino ad arrivare a circa un quarto del totale. Non si convertono semplicemente per vendicare la loro condizione sociale svantaggiata (come accade per i “piccoli bianchi” che si comportano un po’ come i giovani di periferia), ma anche per una sorta di “militanza umanitaria”, che prevede il ricorso alla violenza per difendere delle vittime.

La miscela di classi medie e gioventù di periferia, o anche dei quartieri poveri della Siria, può rivelarsi esplosiva poiché ciascuna componente fornisce all’altra ciò di cui è priva, ovvero il capitale culturale o la sete di vendetta. La collaborazione tra i due gruppi può portare ad azioni eclatanti come quelle del 13 novembre 2015 a Parigi, proprio perché si lega all’ampio armamentario ideologico fornito dall’Is: ci si sente destinati a una missione che è anche una vocazione. L’intento è “punire” una società di miscredenti che si oppongono alla volontà divina. Questi giovani sono animati da una visione euforica della loro vita e del loro avvenire dopo la morte, in quanto martiri ed eletti. Quello che li spinge non è affatto, come sosteneva André Glucksman, il nichilismo, ma una molteplicità di motivazioni.

L’adesione al’Is appare ai giovanissimi un modo di accedere più rapidamente all’età adulta

Occorre inoltre sottolineare la presenza massiccia di donne (circa seicento su cinquemila aspiranti jihadisti in Siria), che contrasta con il loro numero estremamente ridotto prima del 2013. Questo contingente femminile introduce una nuova dimensione nel jihadismo. Le giovani donne si sentono delle compagne in grado di dare a quest’avventura un senso “neocomunitario” o “neoummatico” (la umma è la comunità dei fedeli musulmani), ovvero creatore di una nuova comunità musulmana. Quando sono incinte mettono al mondo, nonostante il martirio del loro compagno, un figlio che sarà a sua volta martire. Uomini e donne si mettono al servizio di una umma che assume un ruolo fondamentale e che s’incarna nel califfato, depositario del sacro. La giovane donna, se lo vuole, può anche unirsi alla brigata Al Khansa, dove le viene insegnato come maneggiare le armi. Può, qualora ne sia in grado, diventare una jihadista a pieno titolo, tornando in Europa oppure rimanendo sul posto, dove richiama all’ordine le donne riluttanti a sottomettersi alle regole dello “stato” califfale.

Oltre a quella femminile, un’altra presenza rilevante è quella degli adolescenti. L’adesione all’Is appare ai giovanissimi un modo di accedere più rapidamente all’età adulta. L’esercizio della violenza diventa un rito di passaggio, di cui i ragazzi si servono per mettere fine all’interminabile periodo di postadolescenza delle società europee, dove il momento dell’emancipazione diventa sempre più tardivo a causa della mancanza di lavoro. L’Is offre la prospettiva di interrompere questa adolescenza che non finisce mai, in un’Europa dove manca qualsiasi visione politica che potrebbe dare un senso alla vita dei giovani.

Le periferie o i quartieri ghetto, infine, continuano a fornire aspiranti jihadisti. Il jihad offre un modo di canalizzare il proprio odio verso la società, colpevole della marginalizzazione e della stigmatizzazione di cui sono vittime i giovani che vi abitano.

L’Is promette inoltre un vantaggio supplementare: senza di esso, il giovane jihadista sarebbe costretto a rivolgersi ad Al Qaeda e al suo discorso teologicamente astruso e noioso contro un nemico lontano. Con il neocaliffato hanno invece accesso a un eroismo immortalato in filmati video, all’esotismo (partire lontano per vivere più intensamente) e al romanticismo (diventare grandi eroi in un mondo che vede rinascere il califfato scomparso nel 1924 e il cui prestigio è paragonabile, per questi giovani entusiasti, a quello del primo stato comunista apparso nel 1917).

Sotto il vessillo dell’Is convivono due tipi di jihadisti, che si differenziano nelle loro motivazioni interiori. Ci sono quelli che soffrono e cercano di infliggere questa sofferenza alle società ritenute responsabili dei loro problemi. Ma ci sono anche quelli che si annoiano e cercano in una vita più intensa, in una guerra senza pietà, la gioia di una vita elettrizzante, che trova nella morte il suo apice glorioso. È questo il motivo per cui alcuni giovani vivono la guerra in Siria come un’euforia ininterrotta, dove l’uccidere e il farsi uccidere sono parte di questa glorificazione di un’esistenza trasgressiva, in una festa senza fine.

La molteplicità dei profili dei jihadisti mostra che le società europee non si trovano di fronte a un tipo preciso di giovani (siano essi di periferia o dei quartieri poveri del Regno Unito o del Belgio), ma a una diversità che include ormai un numero significativo di giovani delusi da un’Europa senza più alcuna utopia politica e in cerca di una vitalità e di una esaltazione violente.

La ricerca di soluzioni per contrastare la radicalizzazione dei giovani deve tenere conto di questa diversità. L’assenza di utopie politiche rende più delicato il compito in un mondo dove la dimensione interiore (il disincanto dei giovani) e quella esteriore (la nascita dell’Is) si fondono in una miscela esplosiva che è frutto di una globalizzazione delle idee che lo stato-nazione europeo fatica a controllare. Quest’ultimo, dal canto suo, stenta ad aprirsi a una vera dimensione europea, nonostante i recenti attentati abbiano mostrato l’inefficacia di una dimensione nazionale dei servizi d’intelligence all’interno dell’Europa senza frontiere dello spazio Schengen.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato su Le Monde.

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