Dei paesi della primavera araba, tre sono in guerra, cinque sono ancora regimi autoritari, e uno solo è una democrazia: la Tunisia, uno dei paesi da cui partono più jihadisti. Il Medio Oriente oggi non sembra essere che macerie, morti e rifugiati. Eppure in questi anni non tutti, in realtà, hanno perso. Mentre l’attenzione del mondo è tutta per la Siria, l’Iraq, la Libia, Israele continua a costruire insediamenti. A espandersi inosservato.

I coloni aumentano a una velocità doppia di quella del resto degli israeliani.

Di là dal muro, d’altra parte, i palestinesi sono impegnati in questa specie di intifada che nessuno ha ancora capito se davvero sarà un’intifada, e però intanto macina oltre un morto al giorno. A Hebron, il suo epicentro, a ogni nuovo morto si brinda, si balla. Ognuno celebra chi uccide l’altro. Mai come in questi mesi, questo sembra un conflitto senza soluzione.

Mentre il mondo intorno cambia, mai come ora qui tutto sembra uguale a sempre.

E invece, nonostante questa eterna sensazione di déjà vu, questo è un conflitto che sta cambiando profondamente. Perché stanno cambiando le identità. Soprattutto tra i più deboli, ovviamente, tra i più costretti ad adattarsi: i palestinesi. Che quasi non ha più senso definire “palestinesi”, in modo unitario. E non certo per via delle divisioni politiche, della rivalità tra Fatah e Hamas.

Le differenze vere sono altre, sono le differenze tra i palestinesi della Palestina e quelli della diaspora, e quelli dei vari paesi della diaspora, e tra i palestinesi delle città e quelli dei campi profughi, tra quelli di Gaza e quelli della Cisgiordania, e quelli di Ramallah, che sono un’isola a sé, e quelli che vivono, o lavorano, in Israele – e poi, naturalmente, le differenze di classe, e soprattutto, tra generazioni. Quello che sta scardinando tutto il Medio Oriente: Abu Mazen ha compiuto ottant’anni, la metà dei palestinesi di cui è presidente neppure 18.

Perché, per noi, quelli che stanno lì incollati al clacson non sono veri palestinesi

E però per noi i palestinesi sono sempre e solo quelli in fionda e kefiah. Battaglieri. E, soprattutto, instancabili. Non vediamo mai i tanti rifugiati del Libano che non hanno la minima intenzione di tornare, o gli imprenditori di Hebron in società con gli israeliani. Chiamiamo gli arabi israeliani “palestinesi del 1948”, palestinesi, cioè, che abitano in quella che nel 1948 era Palestina, senza riconoscere l’evidenza: che sono passati settant’anni, e gli arabi israeliani, ormai, sono altro rispetto sia agli israeliani sia ai palestinesi. Nelle manifestazioni, fotografiamo la resistenza, gli scontri, i lacrimogeni: ma mai le auto in fila, pochi metri dietro, spazientite, perché è venerdì, e il venerdì è il giorno di festa, e stanno tutti andando a Ramallah.

Perché, per noi, quelli che stanno lì incollati al clacson non sono veri palestinesi.

Quelli che, invece di resistere ventiquattr’ore al giorno, vivono.

Perché a essere cambiato, in questi anni, è anche il ruolo di noi stranieri. Al termine della seconda intifada, i palestinesi hanno scelto la non violenza, e l’appello alla solidarietà internazionale, come in Sudafrica ai tempi dell’apartheid. E i primi attivisti, in effetti, hanno avuto un ruolo cruciale. Molti erano giovani giuristi che si erano formati sui Balcani, sulla giurisprudenza del tribunale dell’Aja: hanno offerto ai palestinesi una delle armi più potenti, il diritto internazionale.

Ma oggi il ruolo degli stranieri è decisamente più controverso. E negativo. Non solo per via del fenomeno più visibile, e più cinico, il turismo di guerra, ma a causa di un sistema di ong, di centinaia, di migliaia di ong dalle attività spesso inutili, che non è altro che una forma di welfare, un pretesto per garantire uno stipendio ai palestinesi: e per vincolarli allo status quo, e agli interessi, alle priorità della comunità internazionale. È un sistema che ha burocratizzato la società civile, un tempo tra le più vive del Medio Oriente, ha eroso la democrazia, e tra l’altro, ha anche liberato gli israeliani di larga parte dei costi dell’occupazione. Ma in più, gli stranieri hanno contribuito al congelamento delle identità. E dunque del conflitto.

Vogliamo il palestinese come siamo abituati a immaginarlo.

Il palestinese in kefiah e fionda.

Gli altri sono traditori.

Non vediamo mai gli israeliani, e sono tanti, sono quasi un terzo del totale, sotto la soglia di povertà

E invece, molto sta cambiando anche di là dal muro. Come ha ammesso il suo stesso presidente, Reuven Rivlin, Israele è sempre più diviso. E non solo tra ashkenaziti e sefarditi. I laici, i religiosi, gli ultraortodossi e gli arabi sono ormai quattro gruppi numericamente simili, ma in tutto il resto, radicalmente diversi. E con scuole diverse per i propri figli: una diversa idea di stato, una diversa idea di ebraismo. L’unica cosa a tenerli insieme è il non essere palestinesi.

Quasi non ha più senso definirli “israeliani”, in modo unitario. Ma per noi i coloni che abitano su una collina sperduta solo per beneficiare dei sussidi del governo, e se potessero, vivrebbero altrove, non sono rappresentativi. Perché i coloni, per noi, sono solo quelli violenti. Quelli che bruciano gli arabi. Non vediamo mai gli israeliani, e sono tanti, sono quasi un terzo del totale, sotto la soglia di povertà, il tasso più alto di tutti i paesi sviluppati: gli israeliani che vorrebbero più cibo, più medicine, e meno armi. Meno bombardamenti su Gaza.

O gli israeliani che non odiano nessuno: che hanno semplicemente paura.

Per noi non sono i veri israeliani.

Stare tra israeliani e palestinesi, in questi mesi, è sconfortante. Si è cominciato discutendo di pace, ai tempi di Rabin e Arafat, poi, più minimali, di gestione del conflitto: ora l’obiettivo, negli stanchi comunicati dell’Onu, è l’alleggerimento della tensione. Perché è evidente, ormai, che i negoziati sono inutili: la soluzione dei due stati è stata cancellata dagli insediamenti. Non c’è più spazio, qui, fisicamente, per due stati. Eppure, è proprio tra questi israeliani e palestinesi che si accoltellano e sparano uno a uno, uno al giorno, e festeggiano la morte altrui, che si intravede invece la pace: tra tutti quelli, intorno, fermi a guardare.

Indifferenti? Traditori? Forse, semplicemente, stanchi.

Questo è già uno stato unico, e unico sarà in futuro. Ma né israeliano né palestinese.

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