C’è una misura in Italia che non gode di buona reputazione: il reddito di cittadinanza, il sostegno introdotto nel 2019 per contrastare la povertà e facilitare il reinserimento lavorativo di chi ne fa domanda. Da varie settimane le pagine di cronaca si soffermano in modo insistente sui suoi limiti.
Quello più evidenziato è che tra le persone che lo percepiscono (in media 584 euro al mese) ci sarebbero anche dei “furbetti”, che hanno incassato i soldi ma in realtà, secondo la stampa, sono proprietari di case di lusso, di Ferrari, a volte sono addirittura deceduti, oppure si tratta di trafficanti o mafiosi che amano rimanere sul divano tutto il giorno a farsi mantenere dalla società.
Secondo i critici, “i furbetti” del reddito di cittadinanza causano un danno erariale che colpisce la stabilità economica del paese. Per esempio, le quindici persone denunciate a Roma per averlo ricevuto indebitamente avrebbero percepito complessivamente circa 75mila euro, una cifra certo significativa ma incomparabile ai circa 110 miliardi di euro di evasione fiscale all’anno che, va detto, è assai meno stigmatizzata nel dibattito pubblico.
C’è un ultimo limite imputato alla misura: il rischio di sovversione morale che instillerebbe nella popolazione, il timore che chi percepisce il reddito di cittadinanza si innamori a tal punto del “dolce far nulla” che il futuro del paese si trasformerà presto in una specie di distopia in cui nessuno vorrà lavorare, a prescindere dalle opportunità di impiego.
Miti e colpevolizzazioni
A dire il vero, l’idea che il reddito di cittadinanza costituisca un danno per la società non è nuova: da decenni gli economisti conservatori sostengono che togliere dalla povertà le famiglie svantaggiate costa troppo, è economicamente insostenibile, disincentiva al lavoro e, peggio ancora, corrompe la morale della società, quell’etica del lavoro che, secondo il sociologo Max Weber, assicura a chi lavora la grazia divina.
Tutti questi miti puntellano la storia del welfare. Per tagliare l’assistenza ai poveri Reagan aveva inventato la figura della welfare queen, la “regina dei sussidi”, una madre nera e sola dipinta come una donna truffaldina che viveva grazie ai soldi dei contribuenti mentre sfrecciava con la Cadillac. Reagan era così riuscito a far leva sugli stereotipi razzisti degli Stati Uniti per introdurre politiche di austerità, presentando i tagli come forme di giustizia distributiva.
Ma è dall’epoca di pensatori come Jeremy Bentham, Thomas Malthus e Herbert Spencer che si concepisce la povertà come una colpa di cui i poveri sono gli unici responsabili. Come diceva il fondatore dell’Economist James Wilson, in risposta alle preghiere degli irlandesi perché arrivassero degli aiuti durante la carestia del 1840: “Provvedere agli altri non è dovere di nessuno”.
Scenari distopici
In questi mesi, i giornali e la politica italiana si sono attivati in una campagna simile, facendo leva su tutta una serie di stereotipi per creare una situazione di “panico morale” capace di minare il consenso pubblico a misure di tutela per i meno abbienti. Per esempio, il governatore della Campania Vincenzo De Luca ha detto che il reddito di cittadinanza rischia di portare all’estinzione la categoria dei lavoratori stagionali, così appagati dalla percezione dei 584 euro al mese per nucleo familiare da decidere di darsi a tempo pieno all’ozio. L’idea di De Luca è che il reddito di cittadinanza corrompe le persone al punto di portarle al “parassitismo”, e cioè a vivere alle spalle degli altri, trasformando il rifiuto del lavoro in una specie di epidemia di massa che rischia di far collassare interi settori produttivi.
A ben vedere, gli scenari distopici evocati dalla politica italiana per criticare il reddito di cittadinanza sono così surreali da essere quasi affascinanti. Da un lato esasperano l’immagine del “furbetto”, trasformando il percettore di sussidi in una specie di mostro, simbolo della truffa e dell’immoralità – una retorica che si può osservare anche in altri paesi, a partire dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Dall’altro, insistono talmente sul deficit di etica del lavoro che la disoccupazione cessa di essere la conseguenza di politiche macroeconomiche per diventare una scelta personale.
E qui la questione si fa interessante, perché se la morale è un terreno di disquisizione astratto, soggettivo e scivoloso, la disoccupazione lo è assai meno, e per quanto il dibattito pubblico insista sul rischio che il reddito di cittadinanza diventi un disincentivo al lavoro e causi una disoccupazione di massa, la verità è che questa narrazione adombra una realtà ben più concreta e allarmante: il fatto che in Italia la disoccupazione è strutturale, esacerbata da scelte politiche miopi che negli anni hanno smantellato il tessuto produttivo. Il risultato è un’emergenza permanente, caratterizzata da un tasso di disoccupazione tra i più alti di Europa e dalla compressione continua del costo del lavoro.
Il reddito di cittadinanza non è solo una politica economica, ma un ideale
In Italia, il disincentivo al lavoro non nasce dal reddito di cittadinanza, ma dal fatto che il lavoro spesso non c’è. E quando c’è, è così povero e privo di tutele che è legittimo – e in alcuni casi doveroso – non accettarlo. L’emergenza è rappresentata dall’insufficienza cronica di investimenti nella produzione e nella ricerca. Una carenza che ha gradualmente ridimensionato il settore manifatturiero, mentre il terziario e i servizi hanno assunto un ruolo centrale nel pil italiano, anche se spesso sono caratterizzati da un mercato del lavoro con tutele scarsissime.
Da questo punto di vista, il vecchio slogan di Renzi “venite a investire qui che abbiamo i salari più bassi d’Europa”, riflette bene la logica delle politiche che hanno relegato l’Italia a essere un polo logistico e turistico, lasciando che venissero spostati all’estero i principali comparti produttivi. In questo contesto, l’unica garanzia di trovare lavoro è diventata la disponibilità di vendersi al ribasso.
Ripensare la società
Il reddito di cittadinanza nasce precisamente come risposta strutturale a situazioni del genere. In un celebre discorso tenuto a Madrid nel 1930 e poi pubblicato con il titolo Prospettive economiche per i nostri nipoti, l’economista britannico John Maynard Keynes prevedeva che in un’epoca di “disoccupazione tecnologica” come quella in cui viviamo, la sopravvivenza doveva diventare un diritto non condizionato al lavoro. In questo contesto, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere concepito come una specie di diritto umano, dicono i documentaristi Daniel Häni ed Enno Schmidt: un tentativo di ripensare le finalità della vita sociale, in un’epoca in cui i posti di lavoro disponibili vengono meno. “Il reddito di cittadinanza non è solo una politica economica, ma un ideale”, scrive la giornalista esperta di economia e politica Annie Lowrey, perché non rimanda solo a una forma di ridistribuzione della ricchezza, ma alla necessità etica di ripensare il senso della nostra vita comune.
La scelta è capire se alla fine di una pandemia che ha duramente esacerbato le debolezze del mercato del lavoro italiano e ha evidenziato, come scrivono gli economisti Michele Raitano e Giovanni Gallo, gli scompensi di quella pletora di forme contrattuali atipiche o fatte di lavoro grigio, nero e privo di tutele, si vogliano smantellare anche le poche tutele che esistono.
Mentre il governo propone, e poi stralcia, il criterio di assegnazione del massimo ribasso nell’assegnazione degli appalti – una norma pesantemente criticata perché avrebbe imposto un feroce arretramento nei diritti, nei salari e nella sicurezza – e archivia la proposta di una tassa di successione, dobbiamo chiederci se, come società, vogliamo proteggere i ricchi o i poveri.
In quest’ultimo caso dovremmo dirci che il reddito di cittadinanza non va contrastato, ma potenziato ed esteso. Perché se in alcuni casi è dato a chi non ne ha bisogno, è altrettanto vero che sono molti di più coloro che ne hanno bisogno ma non riescono a riceverlo. Sono infatti ancora tante le persone in condizioni di povertà che non hanno accesso alla copertura, come si legge nel rapporto annuale sul reddito di cittadinanza pubblicato nel novembre 2020.
È forse giunto il tempo di portare l’Italia al passo con i paesi europei dove da anni si sperimenta l’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato. “Un reddito”, per usare la definizione del filosofo ed economista Philippe Van Parijs, “versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale, senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite”. In Finlandia e in Germania questa sperimentazione è già stata introdotta. Nel 2016 un referendum in Svizzera – poi bocciato – proponeva di garantirlo a tutti.
Il reddito di cittadinanza può essere esteso e migliorato, e diventare accessibile a tutti a prescindere dall’accettazione di un lavoro o di percorsi di formazione “congrui”. Per questo non andrebbe considerato – come succede in Italia – come una politica attiva del lavoro, per la quale bisognerebbe immaginare altri strumenti. Lo scopo del reddito di cittadinanza è rendere liberi dai vincoli del mercato e garantire un’esistenza dignitosa a tutti, a prescindere dal ruolo che ciascuno svolge nel mercato del lavoro. È qualcosa di simile al “vento sotto le ali”, come dicono Häni e Schmidt nel loro documentario. Ed è il minimo che si possa chiedere a una società non solo civile, ma umana.
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