Il fondo è stato raggiunto quando un deputato fiammingo, Jurgen Vestrepen, ha lanciato la seguente proposta : “Se facciamo una colletta pubblica possiamo trovare un albanese e pagarlo perché faccia fuori Michelle Martin… Candidati?”. Era il suo commento su Twitter alla liberazione condizionale di Michelle Martin, ex moglie di Marc Dutroux, il 28 agosto. La battuta colpisce sia per il palese e disinvolto razzismo sia – ed è altrettanto palese per chi segue l’attualità belga – perché riassume bene un sentimento diffuso in parte del paese. In carcere dal suo arresto nel 1996, condannata a trent’anni nel 2004 per il suo ruolo nel sequestro, nello stupro e nella morte di alcune minorenni, Martin è uscita dopo sedici anni di detenzione, com’era suo diritto. Ora si trova nell’unico posto che ha accettato di accoglierla: un monastero di clarisse a Malonne, in provincia di Namur. E questo, per parte dell’opinione pubblica, è inaccettabile. Ecco una breve ricostruzione della vicenda che ha infiammato l’estate belga.

Il 25 giugno la stampa annuncia che Michelle Martin chiederà a breve la liberazione condizionale. È la quinta volta dal 2007, e le quattro precedenti richieste sono state respinte. La notizia, quindi, non suscita particolare clamore. A esaminare la richiesta è il Tribunal de l’application des peines (Tap), l’equivalente del nostro Tribunale di sorveglianza, che in Belgio esiste dal 2006. Il 31 luglio il Tap approva la richiesta e scoppia il finimondo. Il giorno stesso fanno ricorso sia l’avvocato delle vittime di Dutroux e Martin sia il procuratore generale di Mons. Il ricorso di quest’ultimo ha effetto sospensivo: la liberazione è quindi rinviata per concedere alla Cassazione di riesaminare – entro 30 giorni – la decisione. Ma il riesame porta sulla forma, non sulla sostanza: ormai è certo che “la donna più odiata del Belgio” tornerà in libertà.

A farne le spese, intanto, sono le povere clarisse: improvvisamente noto in tutto il paese, il loro convento diventa il bersaglio delle proteste. Manifestazioni più o meno infervorate, scontri con la polizia, slogan a favore della pena di morte, scritte sui muri. Altrettanto accesa è la reazione dei garantisti, che condannano la sete di vendetta e la demonizzazione di Martin. Persino i genitori delle vittime sono divisi: la madre di Eefje, Rachel Vanderhoven, dichiara di fidarsi della legge, mentre Jean-Denis Lejeune, padre di Julie, la definisce ingiusta e propone di riformarla. Il filosofo ed economista Joël Van Cauter, la cui prima moglie è stata assassinata, pubblica una “Lettera alle clarisse di Malonne” incoraggiandole nella loro scelta.

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La polemica è andata avanti per tutto il mese di agosto, interrotta solo da un breve “Appello al silenzio”. Questa mattina il governo ha raggiunto un accordo sull’inasprimento delle condizioni per la concessione della liberazione condizionale. Tra le novità: per uscire dal carcere, chi ha commesso un reato molto grave dovrà scontare metà della pena invece di un terzo, e tre quarti in caso di recidiva; la definizione di recidiva è stata ampliata; per i condannati a trent’anni di carcere o all’ergastolo, la richiesta della liberazione condizionale potrà partire solo con l’accordo della procura e della direzione del carcere. Come riassume La Libre Begique, “in alcuni casi un condannato potrebbe dover scontare l’intera pena”. Una buona notizia per chi temeva la liberazione anticipata di Dutroux nel 2013 (sempre che il parlamento approvi la riforma).

Accusati di opportunismo in vista delle elezioni locali di ottobre e di quelle federali del 2014, i politici ribattono che la revisione della legge sulla liberazione condizionale era prevista dall’accordo di governo che, nel dicembre del 2011, ha messo fine a una lunga crisi politica. L’accordo, però, non prevedeva che a dettare i tempi e i modi della revisione fossero le proteste di familiari addolorati e fautori della pena di morte. “A casa abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole”, scrive Mario Calabresi in Spingendo la notte più in là. Anche in Italia la liberazione condizionale ha fatto discutere, solo che da noi i “mostri” erano i terroristi. Si è visto all’epoca della condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani e, più di recente, con i casi Mambro e Guagliardo.

Anche Calabresi, come il padre di Julie, chiede maggiore rispetto verso i familiari delle vittime, e il governo Di Rupo si è impegnato a rafforzare, entro la fine dell’anno, i diritti delle vittime nella procedura per la concessione della liberazione condizionale. Una legge cambierà, com’è normale che accada, ma rimarrà il dubbio che sia cambiata sull’onda della rabbia.

Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin

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