Al trentesimo, sacrosantissimo tweet che mi ricorda che oggi è la giornata mondiale del migrante, qualcosa scatta in un anfratto della mia memoria. Il tempo di tornare a casa, sfogliare il quaderno di appunti che mi accompagna a conferenze e dibattiti (sempre più spesso soppiantato dal portatile, ahilui) ed eccomi riportata al 18 novembre scorso, in un’aula dell’Université libre de Bruxelles. Il collettivo Migrations-Ulb ha invitato Didier Seynave a presentare La guerre aux frontières, documentario meravigliosamente divulgativo sul modo in cui l’Unione europea “controlla” le sue frontiere. Per farvi capire a che punto è divulgativo: dopo quattro anni di lavoro, Seynave ha sfornato tre versioni del documentario, una di cinque ore e mezza (per i coriacei), una di 71 minuti (proiettata all’Ulb) e una di tre quarti d’ora (da portare nelle scuole). Sta anche pensando a una versione per la tv, in due parti da 52 minuti.

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Dopo la proiezione è cominciato un dibattito. Mi sono distratta quasi subito, come dimostra una pagina di appunti più illeggibili del solito. La mia attenzione è inciampata sulla parola “migranti”. Chi sono i “migranti” ai quali l’Onu dedica una giornata mondiale dal 2000?

Partiamo dai fatti. Nel 2000 l’assemblea generale proclama questa nuova giornata mondiale per commemorare la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, adottata dieci anni prima. Nell’articolo 2 della convenzione leggiamo che “l’espressione ‘lavoratori migranti’ designa le persone che eserciteranno, esercitano o hanno esercitato una attività remunerata in uno stato cui loro non appartengono”. Nel preambolo si precisa che i lavoratori migranti possono essere provvisti o sprovvisti di documenti, e la distinzione viene ribadita altre volte, ma la terza parte sottolinea che i diritti umani devono essere garantiti per tutti, lavoratori in situazione “regolare” e “irregolare”.

La convenzione è entrata in vigore solo nel 2003, dopo i tredici anni necessari perché almeno venti paesi la ratificassero. Oggi siamo a 46. L’ultima ratifica è quella dell’Indonesia, il 31 maggio 2012. Nessun paese dell’Unione europea l’ha ratificata. Gli Stati Uniti nemmeno. Neppure il Canada. Vi lascio completare la lista degli assenti.

Oggi però siamo tutti uniti nella celebrazione della giornata del migrante. E per “migrante” non intendiamo i lavoratori che aspettano un atto di decenza da parte dei paesi latitanti di cui sopra. No, celebriamo “il migrante”, una creatura impalpabile nata dalla miracolosa trasformazione di una condizione transitoria in una qualità intrinseca. Il dizionario Garzanti spiega che “migrante” è il participio presente di “migrare” e che, come aggettivo, significa, “che migra, migratore: popolo, uccello migrante” (esistono anche i reni e gli ascessi migranti, ma quella è un’altra storia). Il “migrante”, quindi, dovrebbe essere una persona che migra, se non sempre, come l’Olandese volante vola sui mari e l’Ebreo errante erra sulla terra, quanto meno spesso.

Invece la stragrande maggioranza dei migranti che oggi celebriamo è già “migrata”. Alcuni sono ancora in viaggio, ma molti sono giunti a destinazione. E lì hanno trovato non l’ospitalità di cui parla Derrida (citato nel documentario di Seynave), ma indifferenza, sguardi che li attraversano come se non esistessero. I palazzi si costruiscono da soli, gli anziani sono curati da fate invisibili, i ristoranti e gli alberghi puliti da robot. E quando improvvisamente qualcuno li vede, ne parla, sono gli “immigrati”. O “i richiedenti asilo”, i “profughi”, i “migranti”.

Dal 2008 la Carta di Roma esorta i giornalisti a non confondere questi termini e a non usarne di inappropriati (l’inestirpabile “clandestino”). È un documento prezioso, com’è prezioso il lavoro dell’Associazione che porta lo stesso nome. Ma non dimentichiamo che la sostanza delle persone è altrove.

Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin

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