“Numero di attività registrate: 1.793”. Non dev’essere facile, per chi ha la fortuna di esserci, raccontare il [Forum sociale mondiale][1] di Tunisi. Tra le 1.793 attività in programma, almeno una è già passata da Bruxelles: la presentazione della [campagna][2] “Frontexit. L’Europa è in guerra contro un nemico immaginario”, che chiede maggiore trasparenza sull’agenzia Frontex, creata nel 2004 per coordinare le operazioni di sorveglianza delle frontiere dell’Unione europea.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

The Enemy from Frontexit on Vimeo.

La campagna, promossa dalla rete Migreurop insieme ad altre altre associazioni, è stata lanciata contemporaneamente a Bruxelles e a Bamako il 20 marzo. A Tunisi sarà presentata oggi. Una cosa, almeno, distinguerà il primo evento dagli altri due. Per venire a Bruxelles da Bamako, due rappresentanti di ong maliane hanno dovuto ricomprare il biglietto impiegando alla fine il doppio del tempo previsto. Tutto merito degli zelanti impiegati di Securicom, una delle tante società private a cui le compagnie aeree subappaltano i controlli dei passeggeri in partenza per i paesi europei.

In base alla convenzione di Chicago del 1944, le compagnie aeree devono infatti assicurarsi che i passeggeri siano in regola con le leggi del paese di destinazione in materia di visti e immigrazione. Se all’arrivo sbarca una persona considerata non in regola, la compagnia, oltre a rischiare una multa, deve farsene carico fino alla sua espulsione. Ecco spiegata l’utilità di società come Securicom, pagate per individuare i cosiddetti inammissibili.

Il risultato sono storie come quella accaduta all’aeroporto di Bamako: persone bloccate pur avendo un visto in regola, perché sospettate di voler entrare nell’Unione europea per rimanerci “illegalmente”. È successo ad agosto a una cantante cubana, Gladys Hernández, finita in un Cie belga e poi rispedita in patria senza aver potuto seguire in tournée il resto del suo gruppo.

La soluzione non è affidare i controlli a persone meno zelanti e più sveglie (anche se sarebbe un buon inizio). Come osservava ieri Wu Ming 1, non è nemmeno lottare “per una semplice, astratta, liberale/liberista ‘libertà di circolazione’”. Presentare il dibattito sulle frontiere come uno scontro tra chi le difende (Régis Debray e il suo elogio) e chi ne chiede l’abolizione è riduttivo. Bisogna prima capire cosa s’intende per frontiera.

Nel suo ultimo numero speciale, dedicato proprio a quest’argomento, Le Monde Diplomatique ripropone un articolo del 2006 di Édouard Glissant, “Non esiste frontiera che non si oltrepassi”.

Frequentiamo le frontiere non come segni e fattori dell’impossibile, ma come luoghi del passaggio e della trasformazione. Nella Relazione, la mutua influenza delle identità, individuali e collettive, richiede un’autonomia reale di ognuna di queste identità. La Relazione non è confusione o diluizione. Posso cambiare nello scambio con l’altro, pur senza perdermi né snaturarmi. Ecco perché abbiamo bisogno delle frontiere, non per fermarci, ma per esercitare questo libero passaggio dallo stesso all’altro, per sottolineare la meraviglia del qui-a-lì.

A Tunisi lo sanno bene. Vallo a spiegare agli impiegati di Securicom.

Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it