Nel 2013 numerose associazioni hanno lanciato la campagna Frontexit, chiedendo la chiusura dell’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Unione europea e definendola un “dispositivo militare opaco, sproporzionato, pericoloso”. “L’Europa è in guerra contro un nemico immaginario”, riassumevano i promotori della campagna.

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Uno dei risultati raggiunti dagli stati membri con la creazione di Frontex dieci anni fa è proprio questo: dare corpo a un nemico che non esiste, rafforzare l’idea che l’approccio militare alle questioni della migrazione e dell’asilo sia non solo giusto ma inevitabile. Se siamo arrivati a parlare di operazioni militari contro persone in fuga da guerre e povertà (perché è questo che l’Italia e gli altri stati membri dell’Unione europea si apprestano a fare in Libia, agitando lo spauracchio dei trafficanti di migranti in combutta con il gruppo Stato islamico), è anche perché Frontex ha svolto bene il ruolo simbolico che le è stato assegnato dai governi europei, come svolge bene il ruolo di coordinamento evocato nel nome completo dell’agenzia (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli stati membri dell’Unione europea).

Istituita con un regolamento del Consiglio dell’Ue nell’ottobre del 2004, operativa dal maggio del 2005, Frontex aiuta gli stati membri a eseguire in modo sempre più efficace il controllo delle proprie frontiere esterne e il rimpatrio delle cosiddette persone in soggiorno irregolare. Per svolgere questo compito ha ricevuto dai governi europei ampia libertà: libertà di non rendere conto del proprio operato, libertà anche di non rispettare i diritti fondamentali delle persone intercettate alle frontiere dell’Ue o espulse dal territorio europeo.

Il 6 maggio la mediatrice europea Emily O’Reilly ha presentato le conclusioni, non vincolanti, di una sua indagine sulle operazioni di rimpatrio forzato coordinate da Frontex, in particolare sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone espulse. Naturalmente parlare di rispetto di diritti fondamentali durante un’operazione di rimpatrio forzato è un po’ come discutere del modo più civile di applicare la pena di morte: obbligare una persona a lasciare il paese in cui si trova e a tornare in un paese dove non vuole vivere è di per sé una violazione di un suo diritto fondamentale (si potrebbe obiettare che uno stato ha il diritto di decidere chi può risiedere sul proprio territorio, ed è vero, ma se per esercitare questo diritto fa ricorso alla violenza perde ogni legittimità).

Oltre a spiegare bene come funzionano le operazioni di rimpatrio congiunte, in cui diversi stati membri organizzano un volo verso un dato paese fornendo ognuno una quota di persone da espellere (su questo tipo di quote raggiungono subito un accordo), le conclusioni di O’Reilly mettono a nudo tutta l’ambiguità del ruolo di Frontex. Incaricata dai governi europei di facilitare le espulsioni dall’Unione europea (uno dei punti dell’agenda sulla migrazione presentata dalla Commissione, che vuole modificare “la base giuridica di Frontex per potenziarne il ruolo in materia di rimpatrio”), l’agenzia è al tempo stesso spinta da alcune istituzioni, in particolare il Parlamento e il Mediatore europei e la Corte europea per i diritti umani, a mantenere nel suo operato una parvenza di rispettabilità.

Per condurre questo difficile esercizio, Frontex adotta varie tecniche: scaricare le proprie responsabilità sulla Commissione o sugli stati membri, puntare su una comunicazione accattivante (come nella pubblicazione del 2014 intitolata 12 seconds to decide), ignorare le raccomandazioni che le vengono fatte o applicarle solo in apparenza. O’Reilly, per esempio, si dice “profondamente delusa che Frontex non abbia dato seguito alla raccomandazione, fatta dal suo predecessore nell’aprile del 2013, di istituire un meccanismo per gestire direttamente i reclami di chi ritiene che i propri diritti fondamentali siano stati violati durante un’attività di Frontex”. Un simile meccanismo ostacolarebbe il lavoro dell’agenzia, e non stupisce che la raccomandazione di Nikiforos Diamandouros, il precedente mediatore europeo, sia caduta nel vuoto. Sarà interessante vedere quali raccomandazioni di O’Reilly verranno adottate, e in che misura, da Frontex.

Al di là di questi tentativi di “umanizzare” l’agenzia, da anni collettivi e associazioni ne denunciano l’esistenza stessa. Inzialmente concentrate a Varsavia, dove Frontex ha sede, e in Grecia, il cui confine con la Turchia è stato definito in un rapporto del 2014 un “laboratorio per le attività” dell’agenzia, le proteste si sono estese al resto dell’Europa attraverso campagne come Frontexplode e Frontexit e iniziative come gli Anti-Frontex Days, che si svolgono questa settimana a Varsavia e in altre città europee. Il 16 maggio Watch the Med, una rete di attivisti che fornisce assistenza a chi si trova in pericolo nel Mediterraneo attraverso un numero di emergenza, ha pubblicato un video in cui propone “dieci punti che metterebbero davvero fine alle morti nel Mediterraneo”.

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Finché i movimenti migratori saranno presentati come una minaccia alla sicurezza e non come un fenomeno legato al lavoro, ai ricongiungimenti familiari e al diritto umanitario, Frontex continuerà a crescere e a far crescere il mercato delle tecnologie di sorveglianza, le persone continueranno a morire ai confini dell’Unione europea e noi a farci trascinare dai nostri governi in guerre sempre meno immaginarie.

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