Il regista Zhao Liang alla Mostra del cinema di Venezia. (Stefano Rellandini, Reuters/Contrasto)

In chiusura il concorso della Mostra del cinema di Venezia si è illuminato, e una pepita vera è emersa. Siamo alla pari con Sokurov, o quasi. Si tratta del cinese Behemoth (Beixi Moshuo) opera di un giovane e straordinario documentarista, Zhao Liang. Un notevole film, visionario, dalla parte degli ultimi. Ci si chiede come possa essere stato prodotto nella Repubblica popolare, perché è praticamente l’opera di un dissidente. Forse nel potere cinese qualcosa sta cambiando.

Dove siamo, in quale tempo? Cosa sono queste panoramiche quasi in cinemascope da paesaggi western? Fin da subito fa capolino la visione di un vasto paesaggio di colline grigio-blu, dalle ampie sfumature, un po’ come le montagne dei film cinesi in costume sono al crepuscolo o avvolte nella nebbia, e come spesso le vediamo raffigurate nelle pitture cinesi antiche.

Paesaggio torturato e immobile rotto da un’esplosione al rallentì dove le rocce vanno in mille pezzi, evidente citazione del Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. Ma un prato di un verde psichedelico rompe in seguito analoghe inquadrature, tagliandole a metà, lungo la linea orizzontale, come fossero tagliate da uno specchio, uno specchio sul punto di spaccarsi in frammenti, seppur ampi. Piramidali.

La metafora dello specchio, nel quale sono riflesse, distorte, amplificate le nostre speranze, le nostre sofferenze, le nostre ambiguità e la nostra negatività, costella il film dall’inizio alla fine: non solo perché un viandante porta sulle spalle uno specchio dall’inizio alla fine, ma perché, come se lo specchio piccolo in movimento fosse un pantografo, dal micro al macro, è più volte ripetuta un’inquadratura panoramica come spaccata in tre segmenti, dalla forma piramidale.

Il clou di questa surrealtà è la sequenza finale nella metropoli nuova di zecca e vuota

Siamo in Mongolia, dove distese di miniere di carbone si perdono quasi a vista d’occhio. Ma la perdita di punti di riferimento, di spaesamento, che il film suscita nello spettatore, è controbilanciata da una chiara intenzione descrittiva, in certi innesti di montaggio, sequenze, testo della voce narrante fuori campo. Nella prima parte, quasi troppo, ma forse volutamente accettata dal giovane regista, poiché si sente una grande urgenza di denuncia e se possibile di mobilitazione.

Al regista riesce un notevole innesto, o meglio ancora, ibrido riuscito, tra documentario d’autore (descrittivo, o quasi denuncia pedagogica) e il documentario di poesia, volto a creare immagini di condensazione simbolica, spesso sofisticata, e immagini semplici, volte a trovare l’umano, a sapere vedere di nuovo i volti, la loro verità, la loro sofferenza. Nella costruzione d’immagini poetiche raffinate e sofisticate, emerge una seconda ibridazione, quella con l’arte contemporanea, con le installazioni, video e non. Qua e là questo è forse un po’ stucchevole, poiché il confine tra estetica raffinata ma densa di significato e d’interiorità e immagine estetizzante pretenziosa è vuota e sottile, ma il regista in fondo non fa che scegliere con sapienza, e sapendoli fotografare con altrettanta sapienza, frammenti (ancora una volta) del reale. Aggiungendoci magari un piccolo tocco di costruzione, di messinscena, come il viandante citato, o il misterioso uomo nudo (in realtà il narratore), che vediamo più volte disteso nell’erba verde-psichedelica in una posizione fetale.

In realtà quanto filmato dal regista raggiunge un tale grado di surrealtà nella realtà, che basta un piccolo ingrediente in più, per sottolineare quanto tutti possiamo cogliere nel reale di meraviglioso. La meraviglia di un reale che diviene irreale, per quanto è surreale, è speculare all’angoscia, ma è quell’angoscia foriera di consapevolezza: elemento base, la presa di coscienza, perché la cose possano cambiare. Tutto è uno specchio.

Ovviamente il piccolo ingrediente rivelatore, come detto, da parte del regista è inserito in un lungo, lunghissimo lavoro preparatorio, di costruzione della messa in scena documentaria. Le miniere filmate dall’interno e la sofferente umanità o corte dei miracoli di esseri umani sofferenti e malati dimenticati da tutti, diventano quindi gli squarci, i tagli nello specchio di cui abbiamo detto in apertura, squarci improvvisi di realtà umana in questo ambiente che ha perso l’umano e forse anche la ragione umana. Che ci riportano moralmente al reale, a quello che è essenziale. L’inumanità prossima e ventura è ormai qui. Il mondo demoniaco, quello di certi film di genere degli ultimi anni (come Hellboy o Costantine per esempio), ha fatto irruzione nel mondo terreno, è qui. La fantascienza prossima e ventura è qui. Arcaico e (post)moderno sono qui assieme.


Il clou di questa surrealtà immessa nella realtà, ovviamente, è la sequenza finale nella metropoli nuova di zecca e vuota, dai palazzoni giganteschi, ma vuota. Pulita e perfetta, ma è una città fantasma. Salvo gli impiegati della nettezza urbana che s’impegnano per mantenerla pulita.

Non è l’unico film cinese ad aver fatto uso di una sorta di cinemascope, e a richiamare una sensibilità alla John Ford (tra i cineasti favoriti di Antonioni) nel filmare i paesaggi desertici della Cina: I dannati di Jiabiangou (in Concorso al festival di Venezia nel 2010) di Wang Bing, un vero capolavoro rimasto purtroppo inedito da noi. Tra i più grandi cineasti viventi, documentarista in quel caso al suo primo film di finzione, denunciava un grande ma poco noto crimine del regime maoista, quello di dissidenti spediti nel deserto e rinchiusi in grotte-catacombe di terra, e lasciati a consumarsi e a morire di stenti e solitudine.

Zhao Liang in qualche modo prosegue idealmente quel geniale film. Del resto il giovane cineasta è da sempre dietro a situazioni umanamente disperate quanto rivelatorie dello stato del suo paese. Petition (2009) era il suo lavoro finora più importante, di cui avevamo scritto entusiasticamente da Cannes: girato nell’arco di vari anni, dal 1996 al 2008, e intervallato da altre opere, è un’immersione in un’altra corte dei miracoli, quella dei parenti dei condannati a loro volta condannati a eterne petizioni e ai loro iter dai processi senza fine.

Abbiamo detto corte dei miracoli per l’umanità dolente di Petition, ma avremmo potuto dire gironi danteschi infernali, proprio come per questo Behemoth, dove la metafora di matrice occidentale, dall’opera di Dante Alighieri fino al libro di Giobbe, non impedisce una metafora più sottile, quella che siamo tutti parte dello specchio dell’umanità, siamo tutti (una) parte, anzi frammenti, del tutto e della sua immensità, in sintonia con le filosofie orientali.

Poiché Behemoth siamo tutti noi, come ha anche dichiarato il regista, siamo anche noi che ci autoderubiamo del futuro, e non solo l’assurdo potere cinese (il potere invisibile ma pesante come una montagna). Ma sono anche i frammenti di una società cinese sempre più frammentata e scissa, nelle relazioni umane, interiormente, per il fatto di seguire ciecamente modelli occidentali imposti dall’alto: la citazione iniziale di Antonioni, certamente il regista occidentale che ha maggior influenza sul cinema d’autore dell’estremo oriente, assume così tutto il suo significato, poiché Zabriskie Point è certamente il film manifesto dell’uomo ormai esploso, scisso, privo di unità, disperso in mille frammenti. L’uomo postmoderno. Ecco, almeno, un’influenza occidentale positiva. Lo specchio, insomma, riflette all’infinito.

Qualche dato per concludere, consegnato al regista nel finale, che dedica il film alle famiglie filmate (elencandole): i cinesi in quell’area afflitti da pneumoconiosi sono centinaia di migliaia; i dati in rete attestano l’esistenza di centinaia di città fantasma e di agglomerati edificati senza motivo apparente; il 20 per cento delle zone lacustri della Mongolia è irrimediabilmente inquinata da veleni.

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