Il cinema alla ricerca dell’incanto. Forse questo è il punto in comune in due dei primi film visti alla 73ª Mostra del cinema di Venezia: il magnifico musical che ha aperto il festival e il concorso, La la land di Damien Chazelle, e Les beaux jours d’Aranjuez, il nuovo film di Wim Wenders, sempre in concorso ma decisamente meno convincente.

Wim Wenders con Les beaux jours d’Aranjuez ritrova l’amico Peter Handke con cui aveva già lavorato per La paura del portiere prima del rigore, e soprattutto per Il cielo sopra Berlino, adattando l’omonimo testo del drammaturgo scritto direttamente in francese. Un uomo e una donna si ritrovano a conversare in una giornata estiva in un incantevole giardino privato dell’Île-de-France, Parigi è all’orizzonte, nascosta dalle dolci fronde degli alberi. Uno scrittore li osserva, scrivendo il suo romanzo, dalla propria stanza al pianterreno situata in linea frontale con il giardino. Parlano delle esperienze sessuali, dell’infanzia, dei ricordi.

I bei movimenti di camera aerei sembrano voler dare profondità alla leggerezza. Sembra, ma non riescono. Questo dialogo che si vorrebbe franco sul rapporto uomo-donna, è lezioso quanto il bel giardino. I dialoghi, vuoti e vacui, si succedono perdendosi nell’inconsistenza di un’estate ventilata. È quasi come La grande bellezza di Sorrentino senza però la consapevolezza della vacuità. Sembra di avere a che fare con una parodia di certo cinema d’autore francese, a cominciare dagli attori protagonisti.

Ma Wenders si prende sul serio, e scambia la leggerezza con l’inconsistenza. Eppure a produrre il film c’è Paulo Branco, uno dei grandi produttori di cinema d’autore che al suo attivo ha Cosmos (visto a Locarno 2015), film testamento di Andrzej Żuławski, splendido esempio di profondità nella leggerezza, al contrario del film di Wenders.

E che dire poi dell’uso del 3d? Anche quando realizza un film minimale Wenders non è capace di rinunciare del tutto a pomposità e monumentalità. Quando offre un’esecuzione al pianoforte di Nick Cave sembra volerci dire che lui può e noi no. Ma la vera domanda da porsi è piuttosto: a che serve? Forse a rivelare il vero incanto del mondo reale rispetto alle simulazioni digitali in 3d dei blockbuster hollywoodiani? Poi però, come una nonnina aristocratica, si rinchiude nel giardinetto di casa. E la realtà rimane così fuori campo proprio come in uno di quei blockbuster.

Les beaux jours d’Aranjuez.

Ci sono alcune idee splendide, come il fatto che a un certo momento non si sa più chi controlli chi, se lo scrittore i personaggi, o viceversa. O il bel finale con il cielo plumbeo, forse non originalissimo, ma visivamente forte. Nell’insieme, Wenders ci sembra raggiungere però quel cinema francese (il film è appunto una coproduzione francotedesca) regressivo, chiuso nella sua confortevole bolla protettiva, spesso emanazione di un passato stantio (lo scrittore lavora su una vecchia macchina da scrivere in una casa con un juke-box) mentre fuori infuria la tempesta. Una bolla d’aria evanescente.

C’è bolla e bolla
Splendida bolla di un cinema come non se ne fa più è invece il musical che ha aperto sia il festival sia il concorso, La la land di Damien Chazelle. Chazelle (classe 1985), dopo l’ottimo Whiplash, presentato a Cannes nel 2014 alla Quinzaine des réalisateurs, rappresenta un magnifico esempio di passaggio dal cinema indipendente a una produzione con grandi star (Ryan Gosling ed Emma Stone) senza perdere l’anima. Due ragazzi che fanno lavori umili sognano il successo, l’uno come musicista e compositore jazz, l’altra come attrice. Un classico leit-motiv del cinema hollywoodiano e Chazelle, che sembra ossessionato dal tema del successo come dalla musica, lo riattiva con una grazia e una forza notevolissime, oggi sconosciuta e che si temeva perduta.

Una bella lezione allo stanco cinema commerciale postmoderno, ridotto a zuccherificio plastificato d’immagini dai colori saturi tanto nelle produzioni alla Baz Luhrmann – filmografia riassumibile con una frase: uno spot lungo un film – quanto in gran parte delle produzioni animate in digitale che sembrano aver perso l’inventiva e l’anarchia della Pixar degli inizi.

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In La la land l’inventiva e la freschezza di regia, di composizione, di estetica fotografica, coreografica e scenografica trovano equilibri notevoli, spesso perfetti, soprattutto nella parte iniziale e in quella finale (i due inverni, essendo il film diviso per capitoli equivalenti alle stagioni). Godibilissimo anche da chi non è amante del musical, con invenzioni poetiche continue, dalla regia e fotografia aerea e leggera, cristallina e sensibile, il film è umanista senza essere melenso, mentre il cinema statunitense ci sembrava ormai strutturalmente incapace di esserlo. E questo malgrado alcune splendide battute ciniche fulminanti: “Non mi licenziare, siamo a Natale!”, “Già, ho notato gli addobbi”, è la risposta.

Non sappiamo se Chazelle, nel riattivare l’incanto perduto (o forse no) del cinema hollywoodiano, facendo un film insieme classico e moderno, abbia realizzato un capolavoro. Però il giovane regista ci regala un gioiello prezioso, delicato e personale, che dà speranza sul cinema, e non solo. Il nostro augurio è di vederlo all’opera in futuro con qualcosa che unisca la profondità dei temi e di analisi dei comportamenti di Whiplash con questo rilancio autoriale del cinema popolare per tutti, famiglie comprese, che Hollywood sembra aver incoscientemente dismesso. Intanto ci si potrà godere il mondo (perduto e ritrovato) di La la land, deliziosa bolla destinata a veleggiare nell’aria (e nelle arie) del cinema cantato per molto tempo.

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