Si parlava nel precedente post da Venezia di cinema che cerca di ritrovare l’incanto perduto, dal cinema come da noi stessi. Poche altre cose come l’omaggio dedicato a uno dei maestri del cinema, l’iraniano Abbas Kiarostami scomparso lo scorso 4 luglio, poteva ricordarci meglio la potenza di questo incanto. Il cileno El Cristo ciego, presentato in concorso, ci riesce parzialmente.
È quanto mai importante ricordarsi la lezione di cinema di Kiarostami in questo periodo di grave crisi sistemica internazionale, di perenne terremoto globale (l’avvitamento della guerra in Siria, masse infinite di rifugiati, terrorismo islamico, estrema destra dilagante, cambiamenti climatici) in cui molto cinema sembra confinarsi sempre più in una sorta di bolla protettiva invece di offrirci delle chiavi di lettura.
Kiarostami ha sempre usato la poesia come strumento fondante per l’interpretazione della realtà e il bambino è stato spesso lo strumento poetico del regista, elemento che gli ha anche permesso di aggirare i non piccoli problemi di censura nel suo paese. Anche quando il bambino è assente, nella sua opera lo sguardo-bambino è sempre presente. Se il cinema è sguardo, per Kiarostami la purezza dello sguardo d’infanzia, dello sguardo incontaminato, era questione centrale. Nel cortometraggio di 17 minuti Take me home (2016), il regista di Dov’è la casa del mio amico(1987) ci pare offrirne quasi la metafora o il paradigma.
Abbas Kiarostami riattiva la meraviglia dello sguardo-bambino. È l’incanto primigenio
Kiarostami inserisce digitalmente un pallone – l’attore protagonista del cortometraggio – su delle fotografie da lui realizzate. Il pallone cade lungo le scale di arcaici villaggi italiani che ricordano non poco quelli iraniani. Una discesa quasi infinita, come una pallina da flipper che scende implacabilmente, rimbalzando da tutte le parti. Il film nella sua fisicità neorealista, se così si può dire, giunge a livelli di astrazione alti e inediti, poiché le allegorie e le possibili proiezioni dello spettatore sono molteplici.
Ma in Take me home il cineasta riattiva anche, più semplicemente, la meraviglia dello sguardo-bambino: questo pallone che sembra non arrestarsi mai ci ipnotizza. È l’incanto primigenio. Incanto di cui sono attori altrettanto fondamentali le fotografie di Kiarostami: non è infatti noto a tutti che il regista è stato fotografo e poeta notevole (in Italia pubblicato da Einaudi). Foto di un bianco e nero fisico e sensuale, materiche, e che proprio nel ricercare il massimo di fisicità trovano paradossalmente la trasfigurazione pittorica, se non l’astrazione. Raggiungere e superare con la fotografia la trasfigurazione pittorica era questione essenziale per il regista come si può constatare dall’altro cortometraggio presentato: 24 Frames (2016) è imperniato proprio su questo tema, questione che attraversa in filigrana (ma nemmeno troppo) anche il documentario 76 minutes and 15 seconds di Seifollah Samadian.
La selezione dell’enorme quantità di materiale filmato da questo suo fedele collaboratore con l’intento di restituire un percorso umano e artistico compiuto in 76 anni e 15 giorni trova la sua bellezza proprio nella sobrietà e umiltà visiva. Il cortometraggio si avvicina così al registro naturalistico e neorealista di Kiarostami, come nella magnifica sequenza dove il cineasta viene invitato a percorrere a sua volta il percorso a zig-zag tra gli ulivi del bambino di Sotto gli ulivi. Uno dei finali cinematografici più belli degli ultimi cinquant’anni.
El Cristo ciego è ambientato in un villaggio dove non c’è nulla, tranne tanta terra, terra all’infinito
Molto più costruito, o meglio che fa sentire la costruzione nella regia e in una certa compostezza patinata della fotografia (il buon cinema costruisce sempre, compresi i maestri dell’improvvisazione come John Cassavetes), ma tutt’altro che privo d’interesse, è il film cileno presentato in concorso, El Cristo ciego di Christopher Murray. Murray, classe 1985, nato a Santiago del Cile, è al suo terzo film dopo un lungometraggio di finzione e un documentario. La presenza onnipresente e quasi obnubilante della chiesa è una questione fondamentale nel Cile di oggi. Tanto che Murray si è laureato in regia alla Pontificia universidad católica de Chile.
Il regista segue le orme di un ragazzo indigeno della pampa più desertica, nel Cile settentrionale, nato in un villaggio poverissimo dove davvero nulla c’è, tranne tanta terra, terra all’infinito. È l’unico elemento a cui questi ultimi degli ultimi sembrano aver diritto in quantità spropositate. La terra s’infila dappertutto e sta dappertutto, nelle strade, nelle abitazioni private e nei negozi, le prime come i secondi non pavimentati. Il ragazzo sente qualcosa di forte sorgere in sé, e si convince di essere un nuovo Messia, come probabilmente è stato per i tanti profeti dell’antichità.
Le immagini, belle e suggestive ma molto controllate e un po’ patinate nel rappresentare questo mondo di colline desertiche che ricordano le zone dove Cristo operò, sono lo scenario del periplo effettuato a piedi scalzi dal giovane indio, di una bellezza delicata e forte, nobile nella sua semplicità. I volti pieni di umanità e sofferenza dei vari personaggi, soprattutto delle donne mature, assumono via via maggiore forza, fino alla seconda parte del film, più intensa, più calibrata.
Forse il regista ricerca l’incanto dell’umano come della mistica al pari del protagonista, forse è credente, ma quello che ci fa vedere è la disfatta nella fede e la nascita laica di una possibile fede, malgrado tutto, nell’uomo per l’uomo: se il ragazzo constaterà che Dio non c’è, che non risponde, e che lui non riesce a fare miracoli, non gli resterà che tornare nella sua comunità da perdente. Allora, la sua comunità sembrerà invece accoglierlo a braccia aperte. Al di là dei riferimenti cristiani e biblici, El Cristo ciego, che denuncia lo stato di sfruttamento di quelle terre da parte di grandi compagnie, ritrae una terra dimenticata in un paese diviso tra la chiesa cattolica (in particolare l’Opus Dei) e la chiesa del popolo, fatta dai fedeli e dai sincretismi sempre nuovi.
Il film non riesce del tutto a trovare l’intensità necessaria, avrebbe bisogno di uno spirito creativo maggiormente libero: tanto giovane cinema d’autore, come abbiamo constatato da Locarno, dimostra di essere fortemente interessante ma troppo poco capace di lanciarsi nell’arte pura senza paracadute anche quando vuole sperimentare, come invece ha fatto il Cristo cileno di Murray, morendo e risorgendo da solo.
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