Abbiamo raggiunto al telefono Kim Rossi Stuart, impegnato nella promozione del suo nuovo lungometraggio da regista, Tommaso, presentato quest’anno nella sezione Fuori concorso a Venezia, esattamente dieci anni dopo l’uscita di Anche libero va bene, portato con successo a Cannes in una sezione prestigiosa, la Quinzaine des réalisateurs, e accolto con altrettanto favore dall’esigente critica francese, a cominciare dai Cahiers du Cinéma.
Facciamo quindi i migliori auguri al regista anche per Tommaso, fine ritratto di odierna solitudine dove il regista delinea tra l’altro un personaggio femminile dirompente, sia rispetto agli altri personaggi femminili del film, meno intensi, sia rispetto alla storia professionale dell’attore-regista, inevitabilmente dominata da personaggi maschili.
Sonia, interpretata da Camilla Diana, non appena compare buca lo schermo: ha una forza, una schiettezza che ne fa un’adulta rispetto al protagonista. Tutto è rovesciato come in uno specchio.
A Kim Rossi Stuart dico subito che Tommaso mi è parso un film d’apparente semplicità e chiarezza narrativa, da un lato, ma davvero complesso e denso dall’altro. Un po’ la sintesi del suo percorso personale di attore e regista. Voluto o meno, in Tommaso si ritrova una gran quantità di elementi del suo percorso, a tratti in modo impressionante.
Non riesco a spiegargli subito che nella sua ormai lunga filmografia d’interprete secondo me ci sono due linee fondamentali che mi paiono come due specchi l’uno dell’altra: l’infanzia perduta, che diventerà poi da grande un’età adulta perduta, e la violenza familiare (a cui si aggiunge spesso l’appartenenza a famiglie d’artisti), da un lato, e la periferia, la marginalità, la violenza sociale, dall’altro: in tutti i personaggi interpretati, c’è una rabbia esplicita o di fondo.
E allora nel corso della conversazione insisto. Kim Rossi Stuart ha sempre interpretato personaggi appartenenti a questi due filoni. Una costanza che non è obbligatoria: per fare un esempio recente, nel bel film Le ultime cose di Irene Dionisio, presentato a Venezia nella Settimana della critica e ora nelle sale, l’attore Fabrizio Falco interpreta un personaggio di giovane uomo mite, delicato. Ma se è pervaso anche da lui da incertezze e inquietudini, rimane sostanzialmente sempre calmo e certamente non ha nulla da spartire con i personaggi di Rossi Stuart.
Personaggi spesso pervasi da rabbia, sempre frammentati, nervosi ed elettrici. In una parola, personaggi tellurici, abitati da qualcosa che cova e poi esplode in maniera più o meno virulenta. Si tratta di adolescenti ipersensibili, come Saverio in Senza pelle di Alessandro D’Alatri (del 1994, il primo film in cui Kim Rossi Stuart interpreta il ruolo da protagonista). O di Claudio, il giovane sbandato di borgata in Cuore cattivo di Umberto Marino (uscito nel 1995) che parla, anzi urla, di un padre “che sta sempre zitto e incazzato”. O il jazzista solitario e chiuso Luca Flores nel film biografico Piano, solo di Riccardo Milani (2007), che cade in depressione dopo la morte di Chet Baker fino all’elettroshock e infine al suicidio.
I personaggi e le interpretazioni di Kim Rossi Stuart nei film d’autore ci hanno sempre colpito anche quando il film non ci convinceva. E sono solo degli esempi tra gli altri, a cui aggiungeremmo anche l’interpretazione di personaggi fantasiosi come il Lucignolo del Pinocchio di Benigni, o lontani dal mondo di oggi come il pittore Calandrino vissuto tra 1200 e 1300 e raccontato nel Decameron di Boccaccio nel film dei Taviani Meraviglioso Boccaccio (2015) come un personaggio balordo.
Gli chiedo allora cosa ricorda di personaggi da lui interpretati come Claudio in Cuore cattivo, o il Freddo in Romanzo criminale di Michele Placido (2005), di Vallanzasca in Vallanzasca – gli angeli del male sempre di Placido (2010, tra gli sceneggiatori figura anche Rossi Stuart). Cosa ci sia in comune tra loro, magari una dimensione d’infanzia perduta o calpestata.
“Si riferisce a film che in qualche modo trattano il tema della malavita e della ribellione? Credo sia un po’ difficile non ritrovare in generale nel cinema il tema dell’infanzia in qualche misura problematica”, risponde Kim Rossi Stuart, “e comunque alla fine in Tommaso il tema più profondo è proprio questo. Penso che il tanto deriso bambino interiore di fatto sia un tema che riguarda ogni essere umano, è il tema fondamentale per ognuno di noi. Non ritrovo particolarmente in quei tre film questo tema. Mi incuriosisce però: in che misura lei vede questi elementi?”.
Nel senso che sono tutti individui che hanno avuto un’infanzia o un’adolescenza disagiata, difficile, e sembrano quindi trovare un punto di contatto con gli altri personaggi, gli rispondo.
“L’angolazione però è sociale. Perché Vallanzasca è un personaggio che se lo si studia a fondo ci si deve immergere in un mistero psicanalitico, perché è un personaggio incredibilmente psicanalitico. Gli altri due, quello di Cuore cattivo e di Romanzo criminale non credo. Lì indubbiamente c’è un’infanzia povera vissuta in borgata. Ma vedo dei genitori alle spalle sia del Freddo di Romanzo criminale sia del Claudio di Cuore cattivo. E non penso siano genitori particolarmente problematici”.
Ho notato, continuo, che la linea della sua filmografia si suddivide grosso modo, schematizzando, in due tronconi: la prima in bambini o ragazzi un po’ perduti, tra cui i protagonisti di Anche libero va bene (e non si sa bene chi sia più perduto, se il bambino o l’adulto), Senza pelle, Le chiavi di casa (il padre che ricerca il rapporto perduto con il figlio). E poi una seconda linea di giovani personaggi perduti nella società, in una collettività che non è protettiva. E nella quale ti lasci andare a una serie di tipo di comportamenti, a una certa vita…
“Certamente”, risponde Stuart.
Ma aggiungerei il Lucignolo di Pinocchio, che in fondo è una rappresentazione in forma stilizzata e poetica di un po’ le due linee di questi personaggi. Mi sembra che siano quindi due specchi a confronto: la famiglia e la società, e che ci sia stata la tendenza nel suo percorso a interpretare sempre varianti di queste due tipologie di personaggi. O perduti nella società o perduti in famiglia. Ma quando si è persi nella società spesso ci si è prima persi in famiglia.
“La visione, la lente che lei adopera per esaminare il mio lavoro, i miei film, è molto vicina alla lente che mi è venuta da usare per Tommaso, e non lo dico perché voglio parlare di Tommaso a tutti i costi ma perché questo film mette così fortemente al centro dell’esistenza umana proprio il tema dell’infanzia”.
In Tommaso vedo un proseguimento di Anche libero va bene: un film dove la violenza familiare sostituisce quella sociale e dove questa instabilità dell’adulto è quella del padre che pian piano si sgretola e poi crolla, e si manifesta brutalmente la realtà nuda per Tommi, il bambino protagonista. È l’infanzia stessa che si sgretola.
“Certo. È lo stesso personaggio, la stessa madre, interpretata da Barbara Bobulova in Anche libero va bene. Quindi Tommaso lo si può assolutamente vedere come una continuazione di Tommi nell’età adulta”.
Reazioni eterogenee
Per costruire il personaggio di Tommaso, quanto tempo ci è voluto per la sceneggiatura? Perché c’è un grande lavoro, anche nella prima parte quando compare Jasmine Trinca in casa non si da dove sbuchi, come si volesse far molto sentire la solitudine del personaggio, solo anche quando c’è qualcuno.
“Nell’intero film tutti gli ambienti sono molto sullo sfondo proprio perché era importante raccontare con tutti i mezzi espressivi a disposizione come questo personaggio sia incapsulato nelle sue nevrosi. Quindi sicuramente possiamo parlare di solitudine”.
Questo tipo di personaggio lo considera come la rappresentazione di un tipo di uomo in maniera generale, o anche come la rappresentazione di una certa tipologia di maschio italiano, irrisolto?
“Ho tenuto molto a fare un racconto in prima persona con una narrazione sotto questo aspetto molto rigorosa sia in Anche libero va bene che in Tommaso. E tutto quello che accade nella narrazione trova la sua funzione nel far emergere quello che accade nell’interiorità di questo personaggio. Fondamentalmente credo che raccontando con onestà, sincerità e profondità un punto di vista, si racconta inevitabilmente anche la società, perché quel punto di vista se approfondito, se vero, automaticamente è rappresentativo di qualcuno. Quindi penso che in effetti Tommaso racconti questo tipo di personaggio, anche se in quale misura non saprei dirlo”, spiega il regista.
Kim Rossi Stuart aggiunge: “Posso dire invece che questo film suscita reazioni molto eterogenee. Ogni persona lo vive a modo suo, e questo mi pare abbastanza incredibile. Ragionandoci sopra ho trovato una mia spiegazione, se vogliamo un po’ megalomane. Ci sono persone che lo hanno vissuto identificandosi totalmente e mi hanno detto cose del tipo: ‘No, quello sono io! Come hai fatto a far questo? Chi te l’ha detta la mia storia?’. E ci sono persone che l’hanno visto con l’atteggiamento opposto, con forte distacco. Questa è una figura contemporanea. Suscita delle reazioni così eterogenee anche in coloro che non lo hanno amato e non lo hanno apprezzato – ed è venuto fuori anche in qualche recensione – e noto che resta sempre un beneficio del dubbio: perché comunque viene percepito come un film strano, un film anomalo. Io credo che il film, sempre proseguendo con questa visione megalomane (ride), sia fortemente fondato su una cifra di sincerità, di nudità e di purezza: perché tira fuori in ogni spettatore quello che ogni spettatore ha dentro. Quindi lo spettatore che trova difficoltà con la nudità, con la sincerità, con tutto quel che è lontano dalle sovrastrutture, ha molte difficoltà con Tommaso, che esalta invece queste caratteristiche”.
“Una persona, un regista che fa molte commedie, l’altro giorno mi diceva: ‘Ma sai io non capisco come intorno a questo film ci sia tutto questo parlare così complicato, articolato. Io l’ho visto invece così lineare’. È una persona molto lineare e quindi lui l’ha visto in maniera inversa: in un certo senso è come se si prestasse di volta in volta ad assumere le forme di chi lo guarda. Una cosa che mi incuriosisce molto. Anch’io non ho capito bene fino in fondo i meccanismi che determinano questo fatto, ma mi pare sia così. Il bello comunque è che l’autore stesso fatica a fare tutti i collegamenti che invece un critico, un osservatore, un giornalista in questo senso può fare con molta più autorevolezza”.
Io il film l’ho trovato davvero bello perché, pur essendo complesso, c’è una linearità cristallina nella narrazione e nella regia, non c’è ridondanza.
“È un film nudo, anche stilisticamente. Non solo si mette a nudo Tommaso, non solo si mette a nudo in una certa misura l’autore, ma è nudo stilisticamente. E questo risponde anche a un’altra esigenza: quella di uscire fuori da un’estetica ormai troppo parente del mercato, della vendita, del prodotto, una logica che sta fagocitando un po’ tutto. Quindi la sincerità che io inseguivo non trovava coabitazione con delle immagini virtuosistiche”.
Anche perché forse c’è troppa estetica di derivazione pubblicitaria, non si guarda più alla pittura come facevano invece cineasti come Federico Fellini, Andrej Tarkovskij o David Lynch. Si guarda molto alla pubblicità mentre il suo film è esteticamente antipubblicitario.
“Assolutamente sì”.
Questa semplicità e sobrietà, credo sia un derivato, senza che sia però un vuoto scimmiottare di un certo neorealismo – e includo Anche libero va bene – di quel grande cinema italiano che metteva al centro gli esseri umani e gli attori, da Zavattini a Rossellini.
“Sì assolutamente”.
Quali sono i suoi riferimenti principali e più sentiti in questo senso?
“Per certi versi anche lo stesso Gianni Amelio, anche se Amelio ha poi fatto dei film con una particolare cura estetica. E poi John Cassavetes, sicuramente De Sica, sicuramente Pasolini”.
Truffaut le piace?
“Ho un grandissimo amore per I quattrocento colpi e meno per altri, come per esempio L’uomo che amava le donne, che mi pare un film non molto riuscito anche se poi mi sono piaciute altre cose, come Adele H. I quattrocento colpi ha però una compattezza che secondo me lo rende un capolavoro. Devo ammettere che non sono un grande cinefilo, anche se apprezzo il cinema danese degli ultimi anni. Lars Von Trier mi piace moltissimo, quasi sempre”.
Cosa le interessa di più del suo cinema?
“Devo dire che non ho amato particolarmente Le onde del destino, e che ho invece apprezzato moltissimo Melancholia per il meccanismo filosofico e la lettura della nostra epoca vicina all’Apocalisse. Mi sembra anche un cineasta abbastanza complesso”.
Questa dimensione dell’Apocalisse in forma poetica è molto forte in Melancholia.
“Sì mi sembra geniale. C’è nel film un’idea geniale che mi affascina molto. E poi Bergman, soprattutto da ragazzino. Forse sembra strano che un ragazzino di quindici anni si affacci a Bergman, ma semplicemente m’incantava. Era un regista che parlava dell’anima”.
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