“Non si preoccupi signora, sembra che l’aumento del livello del mare colpirà solo quelli che stanno in basso”, dice a una ricca signora il suo autista alla guida di una limousine decappottabile che scorre su una strada costellata di palme. Il disegno elegante di El Roto, sia concreto sia astratto, togliendo alla battuta e ai soggetti rappresentati un eccesso di evidenza e creando una sensazione straniante, rafforza ulteriormente il messaggio satirico più ancora che se un disegno esplicitamente realistico o grottesco la illustrasse. Questa vignetta, uscita pochi numeri fa su Internazionale, ci pare perfetta per introdurre Parasite, il film del sudcoreano Bong Joon-ho vincitore della Palma d’oro a Cannes, autore di una commedia di satira sociale dal meccanismo perfetto come un orologio svizzero e che giunge ora in sala.
Si pensa a Joker, per il tema e per una certa iconoclastia. Ma anche per una certa risatina incontrollata che nella parte finale colpisce il giovane protagonista di Parasite, dal significato non troppo diverso da quella che pervade dall’inizio alla fine il protagonista di Joker.
È significativo, del resto, che a poca distanza l’uno dall’altro arrivino alla visione dello spettatore italiano due film che, pur provenienti da aree geografiche agli antipodi – gli Stati Uniti e la Corea del Sud –, siano al contempo due film di genere ma fuori dei canoni, due film rivolti al grande pubblico ma provocatori sulla questione delle crescenti disparità sociali, entrambi segnati da un qualche sentimento di apocalittica fine dei tempi, ed entrambi – infine – vincitori del massimo premio nei due più importanti festival di cinema d’autore internazionale: Venezia per Joker, Cannes per Parasite.
La disinfestazione
L’inquadratura di una lunga finestra stretta e di forma rettangolare, suddivisa da altri assi come le singole vignette di una strip a fumetti, apre Parasite. Ma è pure uno schermo o uno specchio che, a seconda se stiamo dentro o fuori, rivela cose diverse a seconda dei punti di vista, oppure uguali ma rovesciate. Il lettore capirà meglio guardando attentamente gli elementi tematici e formali di questo tipo, ricorrenti, che si succedono lungo il film come tanti indizi disseminati dal regista. Intanto in questa sequenza iniziale siamo dentro.
Due ragazzi, che poi scopriremo essere fratello e sorella, hanno problemi con la connessione internet, si lamentano perché la signora di sopra, in realtà del pianterreno, ha messo una password. Siamo infatti in un umido seminterrato dove i due giovani vivono insieme ai genitori. Si spostano allora in bagno dove il wc è installato su una sorta di piano rialzato e dove, accovacciandosi, riusciranno di nuovo a far funzionare WhatsApp nei loro cellulari. Fondamentale per chi vive di piccole truffe o lavoretti precari e non riesce a salire le rampe della scala sociale. La disinfestazione di insetti a cui assisteranno poco dopo penetrerà dallo schermo-finestra – ben più invasivo di qualsiasi tecnologia in 3d – per invadere il loro piccolo spazio intossicandoli pericolosamente. Evidente, visto il titolo che porta il film, di quali insetti dei bassifondi la disinfestazione sia la metafora.
E se non sveleremo granché della trama, accogliendo così l’invito del regista a non svelare i tanti colpi di scena, o meglio ribaltamenti di situazione, diciamo subito che nel descrivere la sequenza d’apertura troviamo il motivo visivo che, sotto le più diverse varianti, ricorrerà incessantemente in un film che riesce a essere al contempo sinfonia e minuetto, raffinato e greve, grottesco e realistico, comico e drammatico, concreto e astratto, sottile dietro l’evidenza.
Sarebbe ingiusto svelare troppo di uno scrigno magico che racchiude splendidi esempi dei giochi della narrazione
Qui l’evidenza è una parete dove si nascondono anfratti sinonimo di bassifondi sociali che nessuno, nelle nostre società opulente, vuole più vedere. E anche se li vede non li capisce, perché, benché li abbia sotto il naso, si ferma a elementi esteriori e fuorvianti al pari dei personaggi ricchi di Parasite.
Se oggi vi è un’eccessiva attenzione alla trama in sé e ai cosiddetti spoiler – contrariamente a quanto accadeva ancora pochi anni fa dove elementi chiave della trama erano sviscerati in analisi di qualità talvolta divenute di riferimento –, sarebbe davvero ingiusto in questo caso (di)svelare troppo di uno scrigno magico che racchiude una serie di splendidi esempi dei giochi della narrazione: quello del regista e quello, speculare, della famiglia delle classi disagiate che cerca di costruire la propria prendendosi gioco di quella ricca. Nel farlo divertono, con sorprese nella trama continue e molto gustose, veri gioielli di orologeria narrativa troppo legati al contenuto per essere qui raccontati.
Senza manicheismi
In questa appropriazione degli spazi ampi dei ricchi, ricchi e poveri convivranno, ma per i primi senza alcuna coscienza di quali fatiche e dolori i secondi devono nascondere negli antri, in corridoi, cunicoli e seminterrati. Il film però evita manicheismi. Poiché è uno scontro tra classi sociali dove quella forte che sta sempre in alto (sul piano alto, sul divano rispetto a chi è sdraiato nascosto, sulla collina, nella villa spaziosa), nemmeno si rende conto di starci, talmente è ingenua o instupidita (la signora ricca) oppure talmente liscia e levigata da essere divenuta insensibile a qualsiasi cosa (il marito). Compresi i sentimenti familiari, mai profondi. E lo scontro vero è tra classi povere o medie, due livelli di classe che nel film si confondono.
Il cinema è sguardo. Insegna a leggere il mondo, la vita. A guardare le linee e oltre
Nessuno è propriamente cattivo, in realtà. Nemmeno quei poveri che compiono cattiverie per cercare di emanciparsi da una condizione sociale che pare una condanna, una prigione. E del resto, come dice la madre dei due ragazzi poveri riferendosi alla famiglia ricca: “Sono gentili certo. Ma lo sarei anch’io se fossi ricca”. È piuttosto la meccanica insita in questo spietato orologio sociale improntato alla dominazione – di cui siamo complici perché tutti desideriamo gli oggetti simbolo di status sociale – a renderci in parte mostruosi e potenzialmente psicopatici, non solamente un bambino autore di strani disegni a metà tra figurativo e astrazione che sembrano una parodia dell’arte di Pablo Picasso e simili. È la meccanica a essere folle.
Eppure le cose sono ancora più complesse: il bisogno di quel che è materiale dietro l’apparenza nasconde un bisogno interiore. È infatti indiscutibile che vi sia anche un grande desiderio di spazio, di spaziare cioè mediante l’occhio e con lo spirito, che sono qui tutt’uno, unitari. Come quando il giovane povero accede all’abitazione della famiglia agiata e scopre in tutta la sua spazialità l’ampiezza del giardino curatissimo di quella casa dalla grande eleganza architettonica che uno splendido movimento di camera ci fa cogliere d’un sol colpo. Il cinema è sguardo. Insegna a leggere il mondo, la vita. A guardare le linee e oltre, tra concreto e astratto, come la pietra dell’inizio, in parte paesaggio e in parte astratta.
Perché Parasite non è solo un film dallo script perfetto, ma anche, come abbiamo visto in apertura, di regia e costruzione fotografica altrettanto perfette. E il tutto si fonde raggiungendo l’osmosi. Per esempio, lo dimostra, una volta entrato il giovane dentro l’appartamento, l’inquadratura con camera fissa in cui una trave taglia l’appartamento a metà come fossero due quadri diversi, opposti. Ma uniti, sullo sfondo, da una scala, altro motivo visivo fondamentale accanto a grandi vetrate o finestre che sono schermi-telecamere interscambiabili come sono interscambiabili le famiglie e i punti di vista.
Le diverse possibilità di sguardo del cinema sono qui metaforizzate oppure sono usate come strumento metaforico di analisi della società? In verità le due cose si equivalgono in un film che veicola tutte le possibilità del linguaggio del cinema, dove pareti e mobili sono una cosa sola e si spostano come fossero fondali, e il tono è quello di una pièce teatrale, anzi di un risibile quanto vacuo teatrino. Leggasi: la società odierna.
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