Il nuovo si fa vecchio, oppure ha solo preso coscienza che per essere proiettati verso il futuro bisogna reinventarsi sempre? Forse perché siamo intrinsecamente mutanti in un quotidiano sempre più instabile, che si fa oltretutto in qualche modo multiverso, ma anche perché nel reinventarsi bisogna saper accettare le cose più naturali, come l’invecchiamento e la necessità dell’amore nella sua forma più pura e assoluta. E, da lì, riunire i frammenti. Anche se sembra un déjà vu. Frammenti di realtà o di illusione di realtà, la quale si fa “meta”, da intendersi in tutti i sensi possibili e immaginabili. Benvenuti nella porta di Matrix Resurrections, dal 1 gennaio nelle sale.

È il quarto, attesissimo capitolo di una saga che ha segnato un’epoca come nessun’altra, situata su un crinale dove era contemplabile da un lato un mondo che finiva e dall’altro uno che, ci piaccia o meno, cominciava radicalmente nuovo. Non dimentichiamolo: il primo capitolo – il film matrice del neo mito della matrice – è uscito nel 1999, quando un secolo e un millennio stavano entrambi per finire.

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Era un film molto innovativo – nei suoi grandi pregi come nei suoi limiti, intimamente legati tra loro – realizzato da due giovani fratelli cineasti, Larry e Andy Wachowski. Nel frattempo, i due sono diventati donne e ora si chiamano Lana e Lilly Wachowski. Ma è stata Lana a tornare, da sola, sui luoghi – che più non-luoghi non si può – in cui è stato edificato questo grande ciclo postmoderno e insieme d’avanguardia, ormai diventato (quasi) vecchio mito. Le è anche servito per rilanciare la propria vita dopo il lutto per la morte dei genitori, stando a quanto ha raccontato. E infatti dietro a questo ritorno sembra esserci un desiderio di amore e di riconoscenza verso chi l’ha generata, al di là delle pressioni della produzione, ampiamente citate con non poca ironia sovversiva nel film. E tra chi l’ha generata sembra esserci anche il cinema stesso inteso come luogo fisico, fattosi incerto nel frattempo anche quello, come testimoniano le toccanti dichiarazioni della regista in merito.

Un caleidoscopio di metafore
In questi oltre vent’anni la causa della comunità lgbt+, quantomeno nei paesi democratici e in modo particolare negli Stati Uniti, ha compiuto importanti passi avanti, e ciò ha spinto, o comunque aiutato, prima Larry e poi Andy nella scelta di cambiare sesso. Questo aspetto ha un importante nesso con Matrix Resurrections, se è vero, come affermano le autrici (anzi “concepitrici”), che la saga è una metafora transgender. Ma questa metafora è in realtà un caleidoscopio che ne contiene molte altre, e che in questo nuovo capitolo trovano la loro rilettura o reset, la loro revisione concettuale. La serie di Matrix – il primo, i due seguiti del 2003 e quest’ultimo– è in fondo un cinema concept, un cinema cerebrale che, nel suo gioco infinito di specchi, è anche leggibile come un viaggio o una paranoia mentale, oppure come la “reale” prigione creata da una mente perversa. Quella eterna del potere che opprime e si fa sempre più raffinato e subdolo.

E quindi le sorelle Wachowski sono sofisticate concepitrici di idee narrative asetticamente messe in forma. Se Matrix è il regno dell’eterna replica e dell’omologazione come risultato dell’anestesia collettiva voluta dal potere – il deus ex machina in senso lato, che governa la città delle macchine – è naturale che questo trovi il suo riflesso nella messa in forma visiva del film.

Il caleidoscopio concettuale di Matrix resta unico nel cinema degli ultimi decenni e questo vale anche per Matrix Resurrections. È un incredibile crogiolo di tematiche fondamentali rappresentate in modo esplicito ma intrecciate in maniera vertiginosa, come fossero le tante facce (specchi) di una sola problematica: tutto è illusione.

Ne enumeriamo alcune. Con modalità (auto)ironica l’arte diventata finta, falsificata, trova il suo paradigma nello spettacolo cinematografico del blockbuster; la constatazione che ormai tutto è un videogioco che ci anestetizza e rende apatici impedendo di reagire uniti al grande gioco del “cripto-fascismo”, per dirla con il film, insito nelle attuali democrazie; la conseguente citazione di Karl Marx (“tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”); la psicoanalisi usata alla rovescia, cioè non come scienza umana che si voleva liberatoria ma come strumento asservito ai processi invasivi e subliminali di manipolazione dell’inconscio da parte dell’ideologia del marketing (il personaggio dell’analista); la corporeità della macchina e inversamente del corpo umano che si fa macchina, e la conseguente disumanizzazione operata dalla tecnologia, vecchio tema del ciberpunk di cui Matrix è una tarda variazione; le teorie più ardite elaborate da scienziati di alto profilo appartenenti all’ambito della fisica, qui illustrate con approccio speculativo.

La saga di Matrix verte sulla coscienza. O meglio, si dipana tra le varie coscienze, i suoi vari stadi e livelli

Teorie che sono alla base delle visioni più forti della fisica, come quella per cui la realtà che conosciamo è labile, sottile, o quella sull’assenza, sulla non esistenza, del tempo. Concetti elaborati da un arco di personalità lungo il quale troviamo il fisico-matematico e cosmologo inglese Roger Penrose e l’italiano Carlo Rovelli. Di Penrose – al quale si devono molte scoperte fondamentali, tra cui quelle sui buchi neri che gli sono valse nel 2020 il premio Nobel per la fisica insieme al tedesco Reinhard Genzel e alla statunitense Andrea Ghez – nel film ritroviamo la teoria più ardita, secondo cui la coscienza umana sarebbe un fenomeno quantistico e le relative informazioni sono trasmesse a livello subatomico dai microtubuli a base di proteine, presenti nelle nostre cellule. In tal senso nel corso di molti anni, unendosi anche al medico neurobiologo Stuart Hameroff dell’Università dell’Arizona, Penrose ha compiuto ricerche sperimentali che hanno trovato varie conferme.

Secondo il fisico, se una persona muore anche solo temporaneamente le informazioni vengono rilasciate dai microtubuli nell’universo, e queste informazioni quantistiche potrebbero esistere in modo indefinito “come anima”. Se oggi la scienza teorizza gli universi paralleli una volta ipotizzati solo dalla fantascienza, alcuni fisici del Max Planck Institute affermano che la coscienza viaggerebbe all’infinito verso universi paralleli dopo la morte. Senza contare la teoria del multiverso, ora inflazionata al cinema (dal recente Spider-Man: No way home fino al prossimo film Marvel Doctor strange nel multiverso della follia) ma che ha tra i suoi critici proprio Penrose.

Naturalmente, queste tesi sono ancora discusse e una risposta spetta alla scienza, ma va detto che le idee di Penrose e Hameroff hanno trovato importanti convalide sperimentali, tanto che sembra accertato che vari processi biologici anche non umani siano influenzati dalla meccanica quantistica (una sintesi la si può trovare anche in questo articolo del Sole 24 Ore).

Quel che ci interessa sottolineare, però, è che in realtà, a un livello più profondo, la saga di Matrix verte sulla coscienza. O meglio, essa si dipana tra le varie coscienze, i suoi vari stadi e livelli. Altre “realtà”? Altri universi? Non lo si sa più, e per Matrix Resurrections tutto questo è vero più che mai. Siamo nell’inconoscibile. La morte-resurrezione di Neo (Keanu Reeves), il déjà vu, i frammenti di ricordi e di sogni che forse falsificano la realtà e forse no, non sono presenti solo per fare un meta-film sul cinema o sul ciclo di Matrix.

Le sorelle Wachowski sono quasi riuscite a ipnotizzare, a dominare senza tirannia e manipolazione il pubblico, soprattutto quello più giovane, facendolo precipitare in un ciclo di film di fantascienza tra i più claustrofobici di sempre: la loro è una fantascienza senza astronavi in viaggio tra pianeti, soli, galassie; non si vede mai il firmamento dalla Terra, che sia quella di Matrix o quella fuori dalla mistificazione del programma, nemmeno per contemplarlo. Del resto non si contempla mai e non c’è mai un vero “fuori”, se si eccettua qualche fugace momento (Trinity che nel terzo capitolo della saga, Matrix Revolutions, riesce ad andare oltre il muro di nuvole nere che avvolge il pianeta e a scorgere il cielo azzurro); in Matrix l’universo – l’assurdo universo tuttavia logico come un’equazione – è qui del tutto “interno”. Non si capisce cosa “esista” davvero. Siamo molto oltre il reality show che il cinema metteva già in prospettiva un anno prima dell’uscita del primo Matrix, con il film The Truman show di Peter Weir, del 1998.

Allora cosa resta? Quale certezza? Anche la vecchiaia è un’illusione? Allo specchio o nella realtà di Matrix? Resta il sentimento interiore della vecchiaia, della vita fugace e dell’amore come unica realtà assoluta. Lo spettatore sia benevolo verso quest’ultimo Matrix, che ha il volto e il corpo spesso fragile e incerto di Keanu Reeves e la nuova risolutezza di Carrie-Ann Moss. La resurrezione di Neo, l’eletto, passa per la sua mutazione, per il suo sdoppiamento. Per ritrovare l’unità dei frammenti.

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