La Festa del cinema di Roma ha cercato un nuovo respiro con questa diciassettesima edizione e sembra averlo finalmente trovato. Un nuovo respiro, un nuovo senso, una nuova collocazione. Anche se molto resta da fare per le prossime edizioni.
Particolari i profili dei due nuovi responsabili della Festa nominati quest’anno. Gian Luca Farinelli, direttore della prestigiosa Cineteca di Bologna, istituzione locale di portata internazionale, e del festival Il Cinema Ritrovato da cui deriva, ha assunto la presidenza della fondazione Cinema per Roma succedendo a Laura Delli Colli, mentre Paola Malanga di Rai Cinema, che ha giocato un ruolo significativo in questi anni nel promuovere il cinema italiano più innovativo, ne ha assunto la direzione artistica sostituendo Antonio Monda.
Con i nuovi responsabili è arrivata anche l’introduzione di varie novità e in particolare del concorso, denominato Concorso Progressive Cinema – peraltro nell’insieme ben riuscito –, con conseguente palmarès e molte nuove sezioni come Freestyle, bel mescolamento di tipologie e formati disparati del cinema che include le serie (il Django di Francesco Comencini, Romulus III - La guerra per Roma di Matteo Rovere) ma anche documentari d’autore che comprendono a loro volta serie doc come The last movie stars. Diretta da Ethan Hawke e prodotta da Martin Scorsese, è incentrata sulla coppia per eccellenza della Hollywood degli anni d’oro – Paul Newman e Joanne Woodward – che la Festa ha presentato accompagnata da un’importante retrospettiva con i tanti film interpretati da Newman e Woodward, separatamente ma anche insieme.
E ancora documentari come quello autodiretto dall’artista visivo sudafricano William Kentridge, il surreale e divertente Self-portrait as a coffee pot in cui il regista grazie al digitale si moltiplica e dialoga con i molteplici sé; o strani ma stimolanti film ibridi come La divina cometa, secondo lungometraggio del grande pittore e scultore Mimmo Paladino. Oppure il ritorno del mockumentary nel distopico Lola dell’irlandese-britannico Andrew Legge, documentario simulato sulla vittoria dei nazisti nel Regno Unito e al contempo messa in scena di un universo parallelo.
Fiabe fondative
Ma un film, qui, primeggia: il documentario Lynch/Oz di Alexandre O. Philippe. Un capolavoro assoluto di lettura del cinema tout court e non solo della matrice principale del cinema surrealista di David Lynch – Il mago di Oz di Victor Fleming con Judy Garland – che si muta gradualmente in una visione ipnotica e poetica fino a diventare opera artistica a sé, opera d’arte a sé. Pur essendo pedagogica: la fiaba originaria è infatti ritenuta “la fiaba fondativa e più amata d’America” e il documentario fornisce tra le altre cose una chiave di lettura di quel paese. Anche per questa ragione Lynch/Oz andrebbe mostrato e dibattuto nelle scuole come nelle università.
E poi tante altre sezioni ad hoc per fare “festa” con il cinema, come Grand public, dove si trovano titoli di richiamo di prossima uscita o appena usciti come l’opera di apertura, Il colibrì di Francesca Archibugi, film di grande umanità sul dolore in cui tutti gli interpreti dimenticano il proprio sé ed entrano in quello dei rispettivi personaggi. E poi Bros, la commedia gay di Nicholas Stoller, Amsterdam di David O. Russell, La stranezza di Roberto Andò, The lost king di Stephen Frears o The Fabelmans, forse il più bel Spielberg degli ultimi decenni che arriverà in sala a dicembre. Oppure ancora come Best of, una selezione dei titoli di maggior richiamo dai grandi festival.
E a manifestazione conclusa possiamo dire che un cambio di marcia c’è stato senz’altro. Non solo per le cifre comunicate dall’ufficio stampa del festival (più 24 per cento i biglietti venduti, più 34 per cento gli accrediti emessi, totale delle presenze più 35 per cento), ma anche per il clima generale e soprattutto per la quantità, ben visibile, di giovani e soprattutto ragazzi delle scuole, festosi a loro volta.
January mette in scena un clima d’incertezza tra speranza e inquietudine, ed è una bella opera sperimentale e di metacinema
Certo, la concorrenza con Venezia resta impensabile, per non parlare di quella con Cannes, ed era anche insana oltre che non realistica, perché a Parigi, sebbene esista una festa del cinema, nessuno ha mai pensato di insidiare lo strategico festival di Cannes.
Ma ora la Festa, pur volendosi comunque proiettare in una certa misura sul piano internazionale, cerca di essere, da un lato, un ponte tra la produzione cinematografica italiana situata sostanzialmente nella capitale – e grazie in particolare al lavoro di Malanga il cinema italiano è stato particolarmente presente in tutte le sezioni – e, dall’altro, tenta di accrescere la dimensione educativa sul cinema, e forse sull’immagine in generale, in particolare mettendo al centro le scuole e i ragazzi.
E su questo la presenza di Farinelli non può che essere di buon presagio, facendo sperare in una sorta di futura joint venture tra Festa del cinema, Cineteca di Bologna-Cinema Ritrovato, Cineteca nazionale Trevi di Roma, e che questo, a sua volta, si coniughi in un progetto d’insieme per il cinema, e per il paese, insieme alle strutture produttive, in qualche modo guidate da Rai Cinema, e forse anche in sinergia – perché no? – con la Mostra d’arte cinematografica di Venezia e la stessa Biennale.
Una rivelazione
Intanto, il festival ha consegnato il suo primo palmarès del concorso internazionale assegnato dalla giuria presieduta dalla fumettista e regista Marjane Satrapi e composta dal regista italiano Pietro Marcello, dall’attore e regista francese Louis Garrel, dal finlandese Juho Kuosmanen – autore del bellissimo Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino uscito in sala nell’autunno scorso – e infine dalla produttrice britannica Gabrielle Tana, con al suo attivo tra gli altri la coproduzione di Philomena di Stephen Frears, film candidato a quattro premi Oscar.
Il lettone Viesturs Kairišs – al terzo lungometraggio e autore di molti documentari – dopo aver già vinto come miglior film al Tribeca film festival alla Festa del cinema ha fatto incetta di premi con il suo January (Janvāris), vincitore del premio per il miglior film, per la miglior regia e per la miglior interpretazione maschile, quest’ultimo assegnato a Kārlis Arnolds Avots, 26 anni, rivelazione di un ottimo interprete e soprattutto scoperta di un volto veramente nuovo, al quale auguriamo fortuna. Il giovane attore lettone, scelto con indubbia oculatezza da Kairišs, sorprende molto e resta nella memoria per questo equilibrio unico di freschezza, dolcezza e intensità, se non anche forza priva tuttavia di machismo, tutti elementi che traspaiono costantemente dal suo volto, un volto d’attore che sorregge non poco le tematiche e le intenzioni messe al centro di January.
Il film è ambientato a Riga nel gennaio 1991 quando le ex tre repubbliche baltiche dell’Unione Sovietica (Lituania, Estonia e Lettonia) erano pervase da movimenti autonomisti e anche più semplicemente libertari, ma represse dai carri armati di Mosca. In Lettonia, nella fattispecie, l’indipendenza era stata dichiarata il 4 maggio 1990. In questo contesto si delinea la finzione impregnata ovviamente di realtà: il protagonista Jazis (Kārlis Arnolds Avots) insieme ad altri amici e amiche desiderano ardentemente fare cinema, ma si troveranno a fare invece resistenza maturando fortemente, nel bene come nel male.
Se January ritorna su un momento storico fondamentale della recente storia repubblicana di quel paese ma al contempo un po’ dimenticato, innestandoci sopra elementi autobiografici (il diciannovenne Jazis è chiaramente un alter-ego del regista che all’epoca aveva quell’età), è forse più per rievocare un clima e delle atmosfere, un mondo interiore e insieme uno stato d’animo. E questo paradossalmente gli permette di meglio delineare il senso di quegli eventi (il regista non manca tuttavia di ricostruire con precisione alcuni eventi salienti di quei giorni). Il clima è l’incertezza tra speranza e inquietudine, filo sottilissimo sul quale il film e i suoi personaggi si tengono in equilibrio permanente, due aspetti che, a tratti, finiscono per confondersi tra loro. Le atmosfere, che lasciano fortemente il segno alla fine della visione, ne sono il riflesso.
Ma il film è anche una bella opera sperimentale e di metacinema, come si dice, di ragionamento sulla forma cinematografica fin nella sua dimensione materica (la camera analogica, i difetti della pellicola, eccetera) che, lavorata con grande apparente leggerezza e reale fluidità, finisce per restituire profondità. Il film, piacevolissimo, sembra fluttuare in una nuvola, in un sogno, comunicando pienamente questa dimensione allo spettatore.
Ramona pare un po’ un film alla Almodovar rivisto con toni da nouvelle vague francese anni sessanta
Non ci ha invece convinto il premio per la miglior sceneggiatura ad Andrea Bagney, regista spagnola con origini polacco-statunitensi che ha scritto e diretto Ramona (vincitore anche del premio Ugo Tognazzi per la miglior commedia tra tutte le sezioni, anche se il premio principale è andato a What’s love got to do with it? dell’indiano Shekhar Kapur, che sarà distribuito dalla Lucky Red), poiché lo script ci pare proprio il maggior difetto del suo film.
Girata in un bel bianco e nero, questa commedia di una giovane attrice tutta d’un pezzo che rischia di mandare in pezzi un rapporto amoroso già esistente – il bisticcio di parole ci pare restituire l’opposizione sulla quale si fondano personaggio e film – a causa di un regista che si è sinceramente innamorato di lei, pare un film un po’ alla Almodovar rivisto con toni da nouvelle vague francese anni sessanta nel filmare Madrid come Woody Allen ha fatto con Manhattan (una delle “muse” ispiratrici del regista). Una bella idea, sintomo di grande libertà e freschezza mentale, anche se un tantino nostalgica, ma resta tutto un po’ troppo in superficie e scontato oltre a una certa incostanza nel ritmo che, per una commedia, è un difetto importante. Peccato, perché sul piano della regia e della fotografia in diversi momenti Bagney ci pare avere un tocco realmente delicato e sensibile, non privo, al contempo, di una reale eleganza nella messa in scena. E questo, trattandosi di un primo film, ci pare un elemento importante per il futuro.
Sferzante e coraggioso
Più che giusto invece il secondo premio per importanza andato al bel film sudcoreano Jeong-sun di Jeong Ji-hye – anche lei regista esordiente – che si è visto assegnare il gran premio della giuria. Film di donne operaie diretto da un’ex operaia, Jeong-sun costituisce un ritratto vivido, forse anche un po’ sanguigno, di un dato contesto lavorativo già di per sé difficile in quel paese non proprio alfiere di diritti ma che si aggrava nel caso delle donne, questione ancor più vera per le molestie sessuali qui fotografate da un’angolazione inedita: “i crimini sessuali digitali”, che stando alla regista sarebbero in forte aumento nel suo paese.
La dignità violata e la violenza psicologica che ne consegue per colpa di un collega del quale Jeong-sun, la protagonista, si fidava pienamente, ma che invece ha fatto circolare liberamente un video dove la si vede in situazioni intime, sono le tematiche più evidenti del film. Ma in realtà Jeong-sun verte sulla labilità sottile dei confini: tra realtà e virtuale, dimensione pubblica e privata (e ne sappiamo qualcosa in Italia dove si mettono massicciamente in piazza, e senza pudore, questioni intime o familiari pur di apparire nei talk show televisivi), uso corretto o distorto dei media, quelli digitali nella fattispecie. Tuttavia è certamente la questione anagrafica a essere qui centrale: perché una donna di una certa età, non più considerata attraente, si permette questa libertà e gioia di vita? Non è forse una prerogativa maschile? Il film è davvero sferzante e coraggioso quanto preciso nella scrittura cinematografica intesa in senso ampio ma parte importante del merito va anche a Kim Kum-soon, premiata per la miglior interpretazione femminile.
Infine Foudre della svizzera Carmen Jaquier, altra esordiente, vince il premio speciale della giuria per la direzione della fotografia di Marine Atlan e una menzione speciale della giuria va all’attrice Lilith Grasmug che interpreta la protagonista. Il film forse è un po’ calligrafico e un tantino accademico sotto certi aspetti, soprattutto nei riferimenti – tuttavia ispirati – alla pittura romantica (i tramonti alla Caspar Friedrich), nondimeno è un potente racconto originale di spiritualità religiosa al femminile rivoluzionaria. Anzi, due volte rivoluzionaria, poiché narra di una visione mistica del mondo tra le alpi svizzere in un’epoca, l’inizio del novecento, in cui questa era davvero prerogativa degli uomini.
Ma è soprattutto la risposta alla domanda chiaramente panteistica che pervade il film – Dio dov’è? – a sorprendere: dappertutto e forse prima di ogni altra cosa nel sesso, vissuto liberamente e intensamente. Il bello è che lo si scopre poco a poco, con delicatezza e senza che la mistica, che si fa quasi dionisiaca, diventi mai ridicola: un esercizio molto difficile e interessante che fa perdonare alcuni difetti e limiti, dal quale emerge in verità un ritratto di donna puro, vivo quanto sognante ma nondimeno portatore di una grande sofferenza, singola e collettiva. Una sofferenza della storia.
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