Dopo Anatomia di una caduta di Justine Triet, Teodora film porta in sala un altro eccellente film che è stato in concorso all’ultimo festival di Cannes, e sempre firmato da una regista: Ancora un’estate di Catherine Breillat. Non meno provocatorio e intenso, ma anche più oscuro e insieme romantico, per certi aspetti anche più folle, rispetto a quello di Triet. Il film è magistrale nel ricostruire con precisione geometrica i comportamenti che delineano la psicologia dei personaggi, in particolare quella della protagonista, piena di ombre negli interstizi della luce che emana, quasi come una fenomenologia del mondo naturale che la cineasta osserva e documenta. Seducendo gli spettatori.
Va detto che Breillat è regista e scrittrice di lungo corso: nata nel 1948, nel 1968 fu censurato il suo primo romanzo, L’homme facile. Sette anni dopo suscitò di nuovo scandalo con il suo film d’esordio, Une vraie jeune fille (1975), che conteneva delle scene pornografiche. Dopo il secondo film dovette mettere in pausa la sua carriera da regista, tornando dietro la macchina da presa solo nel 1988. Nel 1996 fu finalmente ripagata dal successo del pubblico per Parfait amour!.
Ha incontrato sempre ostacoli enormi nella sua carriera, senza contare quelli personali, come l’emorragia cerebrale che nel 2005 le ha provocato una paralisi facciale, poi superata. In compenso ha conquistato l’apprezzamento sempre fedele di buona parte della critica cinematografica francese più esigente, a cominciare dai Cahiers du cinéma. È dunque il film di un’autrice dal percorso difficile e complesso, quello che gli spettatori italiani si trovano ora a vedere.
Piacere per lo scandalo e la provocazione o no, il punto di vista sul quale è imperniato il suo lavoro è sempre originale, inatteso e realmente profondo, da non scambiare con una posa autoriale gratuita. Non le piacciono le rappresentazioni monolitiche della realtà, nella fattispecie della psiche umana, a cominciare da quella femminile, ed è capace di creare dei personaggi femminili forti, unici, anche per le loro ambivalenze o ambiguità.
Quel che interessa Breillat è certamente l’ordine borghese attraversato da fratture sotterranee che possono esplodere improvvisamente, tendenzialmente viste attraverso il prisma delle relazioni sentimentali, ma soprattutto della sessualità e delle forme incontrollabili che può prendere il desiderio. L’amour fou è il grande tema che attraversa da sempre la letteratura e il cinema francese, ma qui è riletto con un’occhio femminile, femminista per tanti aspetti, e trasgressivo. Il suo femminismo si posiziona in altro modo rispetto ai canoni consueti.
E più si ragiona sul film più ci si accorge che è davvero eccezionale l’interpretazione che Léa Drucker fa di Anne, avvocata affermata, che si occupa di minorenni. Breillat, grande cineasta dei volti, nella sequenza d’apertura, sbatte subito in faccia agli spettatori il tema del film: l’ambiguità su dove si situi la linea di demarcazione del consenso, soprattutto quando succede qualcosa tra maggiorenni e minorenni. All’inizio – con la presenza di una ragazzina molto imbarazzata, forse tormentata, nell’ufficio di Anne – la questione riguarda i rapporti sessuali consensuali e la violenza su una minorenne, e la paura di raccontare questa violenza. Ma l’assunto iniziale, forte perché cade come un colpo d’ascia sullo spettatore, è tuttavia un po’ didascalico, e sarà poi ampliato con qualcosa che è complementare, ma che è anche il suo rovescio.
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Anne invita nella sua grande casa con giardino Théo, la rivelazione Samuel Kircher. Théo è il figlio adolescente che il marito di Anne ha avuto da un matrimonio precedente, un bel ragazzo con un suo carisma, ma conflittuale, quindi difficile da gestire, che fa impazzire il placido padre, molto concentrato sulle difficoltà al lavoro. Théo è molto dolce e delicato con le due piccole sorelle, due ragazzine adottate dalla coppia, ma litiga sempre con il padre. Con Anne, che cerca di instaurare un buon rapporto con lui, è invece a metà fra cordialità e polemica, comunque è piuttosto amichevole. Anne rappresenta l’ambivalenza insita nella psiche umana, i cui meandri oscuri la cineasta vuole esplorare, a cui fa da contrappunto l’ambientazione estiva, sinonimo di luce.
Di questa ambivalenza, su cui si fondano le relazioni umane, è perfetto esempio un dialogo tra Anne e Théo, quando cominciano a instaurare un tenero rapporto, per certi aspetti anche complice: “Chi è stata la tua migliore amica?”, chiede Théo ad Anne. “Mia sorella. Al tempo stesso è sempre stata molto gelosa di me”, è la risposta. La fotografia della dualità, o della doppia faccia del reale, con piccoli tocchi, graduali ma puntuali, dipinge un affresco di grande interesse sulla difficoltà di decifrare il mondo circostante, una realtà composita. Poi succede l’inatteso: nasce una passione amorosa tra i due. Sia chiaro, la regista su questo mostra ma senza indulgere più di tanto: quel che le interessa è la descrizione delle psicologie attraverso un grande equilibrio tra azioni e dialoghi.
Quando Anne torna al mondo razionale si accorge dell’errore, della follia del suo comportamento. Cerca il silenzio complice del ragazzo, ma poi questa promessa, per via di dinamiche inattese, si rompe.
Théo si ribella e diventa incontrollabile. Anne è ora terrorizzata da quella purezza giovanile che in precedenza l’aveva attratta in modo altrettanto incontrollabile, spingendola a sedurre il ragazzo. O è stata sedotta lei da Théo, altro personaggio stupendamente delineato e interpretato, insieme dolce e provocatore, arrogante e ammaliante? Sia come sia, Anne, l’avvocata cristallina che difende i minorenni dagli abusi, sarà implacabile nel far passare Théo per bugiardo. Manipolatrice senza scrupoli?
Breillat, come sempre, non giudica i suoi personaggi. Ma fornisce allo spettatore altrettanti indizi sia in un senso sia in un altro. Dal desiderio – stranamente ammesso da Anne durante un rapporto con il marito – provato durante l’adolescenza per un amico di famiglia dalla pelle incartapecorita, tanto che sembrava sul punto di sgretolarsi, come se fosse un morto, fino alla solarità, alla luminosità, alla nuova giovinezza e al genuino romanticismo che le ha donato Théo, c’è un unico filo a legare tutto: l’atto estremo della vita si confonde con la sua antinomia, la morte. Lo suggella un finale che lascia a bocca aperta, insieme alla parole di Vingt ans, la canzone di Léo Ferré dei titoli di coda. Un finale di cui dirò solo che la camera da letto è in questo caso la vera camera oscura.
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