Il volto di Toshirō Mifune che apre la breccia nella polvere malgrado il furore dei combattimenti in I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa, dove l’epica è al servizio del riscatto degli ultimi, o quello all’apparenza tranquillo di John Wayne in Sentieri selvaggi (1956) di John Ford, che incarna un ex soldato sudista intriso di tutti i pregiudizi razziali e dove l’epica si fa problematica? Oppure ancora quello di Gene Hackman in La conversazione (1974) di Francis Ford Coppola, mago delle intercettazioni nell’era del Watergate e della paranoia dilagante, un viso compiaciuto che si disfa gradualmente davanti a una realtà indefinibile, sfuggente e insieme mostruosa?

O ancora quello travagliato di Nastassja Kinski, sul quale lo spettatore può cogliere tutta la gamma dei sentimenti davanti alla rivelazione della faccia nascosta da un vetro semiriflettente in Paris Texas (1984) di Wim Wenders o quello espressione del candore più assoluto di una giovane Catherine Deneuve in Les parapluies de Cherbourg (1964) di Jacques Demy, musical malinconico ma che proietta malgrado tutto lo spettatore in una sorta di gioia eterna. In quel film non si sa più dove inizi la vita vera, con i suoi dolori, e dove invece il sogno, inteso come eterno limbo, per quanto dolce.

Sui volti il cinema ha costruito molto del suo successo per l’indubbia capacità d’impatto drammaturgica e spettacolare che veicolano, ma anche molto del suo senso profondo in quanto arte, grazie al fatto che la camera può scrutarli con un’ampia gamma di movimenti o di inquadrature ravvicinate, fino ad arrivare al primo piano. Una vera e propria rivoluzione espressiva e concettuale che questo mezzo ha operato fin dal muto, in netto contrasto con il teatro, dove i corpi e i loro movimenti sono decisamente più importanti.

Les parapluies de Cherbourg (1964) di Jacques Demy


Tutto questo è stato evidente al festival del Cinema ritrovato di Bologna (22-30 giugno), e in particolare sullo schermo gigantesco di piazza Maggiore dove ci sono state le proiezioni serali. Ma lo è stato nel caso di altre opere classiche, come Pat Garrett e Billy Kid (1973) di Sam Peckinpah, per restare ancora su titoli dove la dimensione autoriale e lo spettacolo sono inscindibili l’uno dall’altro.

Proiettato al chiuso, il notevole schermo del cinema Arlecchino ha tuttavia permesso di penetrare al meglio in questo capolavoro, un concentrato unico di crepuscolarismo del western e al suo immaginario mitologico, dove la sensibilità nel cogliere con poetica malinconia scorci di paesaggi – poiché il western ha rappresentato anche l’apoteosi di un paesaggismo di alto livello, figlio della grande tradizione pittorica, immesso però in un cinema rivolto al grande pubblico – è ancor più accentuata quando riprende i volti dei protagonisti, in particolare quelli di due protagonisti della controcultura degli anni sessanta e settanta, Kris Kristofferson (Billy Kid) e Bob Dylan (Alias), dove il primo annuncia la sconfitta dell’utopia sulla realtà incarnata da James Coburn (Pat Garrett).

Fu soprattutto da questo film che nel cinema di Peckinpah la realtà sembrò sempre più senza futuro e direzione, come sancirono i titoli successivi della sua filmografia, fino all’apoteosi di Osterman weekend (1983), ultimo lungometraggio di Peckinpah, dove tutto precipita in un dramma da camera asettico immerso nell’oscurità, ambientato nella sede della Cia e poi in un’abitazione privata senza che se ne colga una differenza sostanziale – talmente l’ossessione spionistica diventa invasiva –, metafora e ancor più presagio di un’America moderna, che ha perso ogni genere di libertà per l’imporsi inarrestabile di una società del controllo.

I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa


Il film di Peckinpah chiude un cerchio aperto da Coppola dieci anni prima proprio con La conversazione, che pare un presagio ancor più grande degli Stati Uniti e del mondo di oggi. Rivedere su grande schermo quello che per lo stesso Coppola è uno dei suoi massimi capolavori, benché tra questi sia il meno spettacolare, permette di cogliere che un’opera fatta di frammenti di suoni che si fanno astrazione, cioè astrazione da una realtà sempre più incomprensibile, smonta almeno in parte il cliché che lo schermo più grande vada a beneficio di quello che è il film spettacolare comunemente inteso.

Tutto questo va detto ovviamente – ma è un aspetto fondamentale e non marginale – tenendo conto che i titoli citati sono tutti restaurati e sembrano come nuovi: mantenere la memoria del cinema significa più che mai mantenere la memoria del novecento e della modernità. E proprio il vetro semiriflettente di Paris Texas è la potente metafora di chi guarda o è guardato, in altre parole della forza dello sguardo fino al voyeurismo, raggiunta in poco più di un secolo dal cinema, un linguaggio fondato sulla regia.

L’espressività dei volti e ancor più degli sguardi era addirittura il cemento del cinema muto. Se alla proiezione del film epocale Napoléon vu par Abel Gance (1927) ci si sente dominati dagli sguardi dell’attore Albert Dieudonné nei panni dell’imperatore, in piazza Maggiore, dove si è assistito alla proiezione restaurata di Il vento (1928), capolavoro del muto diretto dallo svedese Victor Sjöström, si è invece prede della claustrofobia. La storia di una donna imprigionata allo stesso tempo in un matrimonio e nel deserto del Texas crea una dimensione di oppressione, insieme astratta e concreta, che contamina lo spettatore, anche grazie agli stati d’animo espressi dal volto di Lillian Gish – che volle a tutti i costi questo film – sostenuti da un’esecuzione perfetta dell’orchestra del conservatorio G.B. Martini delle musiche composte da Carl Davis e riadattate e dirette da Timothy Brock.

À Bissau, le carnaval (1980) di Sarah Maldoror


La sezione Cinema libero ha invece proposto uno straordinario scorcio sul cinema mediorientale, in particolare siriano, con le opere di Mohammad Malas – Al-Leil (1992) sulla tragedia palestinese, ma fuori dalle retoriche ufficiali del regime siriano – e di Ossama Mohammed – il suo esordio Nujum An-Nahar (1988), sulla dissoluzione di una famiglia tiranneggiata da un uomo con il volto di Assad, e che per questo fu censurato in patria. O ancora i documentari straordinari di Sarah Maldoror – À Bissau, le carnaval (1980) – dove storia, etnologia e poesia si mischiano in modo unico.

Ma l’evento è stato l’insieme di opere di grandi registi, come il filippino Lino Brocka – Bona (1980) capolavoro di un cinema sia popolare sia d’autore, incentrato sul volto di una ragazza che subisce ogni tipo di violenza, è un durissimo atto d’accusa alla società patriarcale filippina – e il senegalese Ousmane Sembène insieme all’attore e regista Thierno Faty Sow con Camp de Thiaroye (1988), forse la visione più forte di tutte.

In Camp de Thiaroye le parti della censura che spesso investe queste opere sono invertite: promosso dalle autorità del suo paese fu fortemente ostacolato dagli ambienti della produzione francese, e una volta prodotto il governo francese ottenne dal festival di Cannes la sua eliminazione dalla selezione. Fu invece presentato a Venezia, dove la giuria presieduta da Sergio Leone lo premiò con il Leone d’argento.

Il suo restauro permette di ammirare un’opera prima di tutto coraggiosa su un episodio tra i più indegni del colonialismo: quello del massacro dei soldati neri nel campo di Thiaroye perché si rifiutarono di essere pagati meno rispetto ai militari bianchi dopo aver servito la Francia durante la seconda guerra mondiale, spesso con grande coraggio in un conflitto non loro. Ma il film è un miracolo assoluto di equilibrio tra la commedia, una sottile ma costante ironia e la denuncia storica che si riflette sulla recitazione degli attori che lavorano notevolmente sulle sfumature. Un’opera corale che è anche un’ampia galleria di volti unici, impressi nella memoria prima della tragedia finale.

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