Con il riconoscimento del genocidio armeno, papa Francesco è riuscito in un colpo solo a ergersi a difensore della cristianità perseguitata nel mondo, a diventare interlocutore privilegiato delle chiese orientali, a compiere qualche significativo passo in avanti verso la costruzione di un ecumenismo del martirio che va sicuramente più spedito di quello teologico. E se tutto questo costa una crisi diplomatica con il governo turco, pazienza. D’altro canto il papa a Istanbul c’è già stato nel novembre scorso, in occasione della festività di sant’Andrea, l’apostolo evangelizzatore dell’oriente.
Le affermazioni del papa sul primo genocidio del ventesimo secolo vanno dunque osservate in una chiave di lettura ampia e ben collegata agli eventi contemporanei. L’omelia pronunciata dal papa domenica scorsa nella basilica di San Pietro, di fronte a tutti i rappresentanti delle diverse confessioni cristiane dell’Armenia, tra i quali spiccava Karekin II, catholicos di tutti gli armeni, e al presidente della repubblica Serž Sargsyan, prendeva infatti il via non dal passato ma dal presente. “In diverse occasioni”, ha detto Francesco “ho definito questo tempo un tempo di guerra, una terza guerra mondiale ‘a pezzi’, in cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione”. “Purtroppo”, ha aggiunto “ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi –, oppure costretti ad abbandonare la loro terra”.
Il genocidio armeno, diventa, in questa lettura, il primo capitolo di una persecuzione contro i cristiani che ancora miete le sue vittime nel mondo. Francesco, poi, ha collegato al massacro degli armeni, altri grandi stermini del novecento: nazismo e stalinismo, Ruanda e Burundi, Bosnia, Cambogia. In tal modo da una parte ha fatto un discorso generale sulla condizione umana – “pare che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente” – dall’altra ha provato a collocare la tragedia armena in un contesto più ampio, limitando un’eventuale interpretazione eccessivamente antiturca delle sue parole.
Sul tema, Francesco si è richiamato espressamente a Giovanni Paolo II e a quanto ha detto il suo predecessore, in tal modo collocandosi in un percorso già tracciato dal papa polacco. Nel corso dell’omelia poi, a maggior conferma di una interpretazione aperta al presente della sua iniziativa, ha voluto di nuovo richiamarsi all’attualità: “Pare che la famiglia umana”, ha detto “rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che ‘la guerra è una follia, una inutile strage’”.
Tuttavia Bergoglio non ha fatto alcun riferimento agli autori del genocidio, cioè quei “giovani turchi” considerati i laicizzatori e fondatori della Turchia moderna. Bisogna anche dire che il nazionalismo turco sotto questo profilo non fa distinzioni e, quale che sia il governo in carica, di ispirazione islamica o meno, contesta sempre con puntiglio chi parla di genocidio. È stato così anche stavolta, il nunzio della Santa Sede ad Ankara, monsignor Antonio Lucibello, è stato convocato dalle autorità turche e a lui sono state rappresentate le critiche del governo Erdoğan al papa. Successivamente l’ambasciatore turco presso il Vaticano è stato richiamato in patria in segno di ulteriore protesta.
En passant è opportuno ricordare che lo stato delle relazioni tra Santa Sede e Ankara è tutt’altro che brillante; i passi avanti si vedono col contagocce e molti dossier relativi alle proprietà della chiesa in Turchia e alla libertà religiosa sono fermi da tempo. In ogni caso un dato è certo: per Bergoglio la Turchia e ora l’Armenia sono diventate una via che conduce Roma verso l’oriente. Con il patriarca ortodosso di Istanbul, Bartolomeo I, il pontefice è in ottimi rapporti: insieme sono andati a Gerusalemme, poi Bartolomeo è venuto a Roma per l’incontro tra Francesco, Abu Mazen e Shimon Peres. E alle viste c’è il grande sinodo panortodosso del 2015 convocato da Bartolomeo per discutere di tutto, anche del primato petrino, cioè del rapporto delle chiese ortodosse con il vescovo di Roma; ma in generale l’assise dovrebbe avere il senso di una sorta di concilio Vaticano II d’oriente. Il patriarcato ortodosso di Mosca, l’altro grande polo cristiano d’oriente, ha dovuto accettare suo malgrado l’offensiva ecumenico-ecclesiale dell’asse Bartolomeo-Francesco. Ora, sollevando con clamore la questione armena e mettendola in relazione con gli attacchi ai cristiani dei nostri giorni, Francesco assume pure il tema delle persecuzioni dandogli una prospettiva di lungo periodo.
È un’operazione non priva di rischi dal punto di vista storiografico e dei diversi contesti contemporanei (in Kenya si può parlare di terrorismo, non tanto di persecuzioni, per esempio), ma papa Francesco in tal modo prende soprattutto un’iniziativa politica. Bergoglio punta infatti a diventare leader di riferimento della cristianità offesa e perseguitata e la voce autorevole di Roma diventa riferimento anche per il mondo delle chiese orientali. In un simile contesto il dialogo ecumenico con Mosca prosegue, ma i rapporti di forza sono a favore della Santa Sede.
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