Martedì 2 giugno un nutrito gruppo di insegnanti, genitori e ragazzi ha consegnato al sindaco di Milano Giuseppe Sala un lungo elenco di proposte concrete per la riapertura delle scuole. È un vero e proprio testo collettivo, elaborato durante numerosi incontri promossi dalla rete E tu da che parte stai?, nata nella primavera del 2019, che dopo la clausura imposta dal covid-19 rilancia l’urgenza di trasformare i luoghi educativi coinvolgendo la città.
Scuola sconfinata è un progetto ambizioso che, pur muovendosi tra le difficoltà della crisi, cerca di volare alto provando a delineare un “progetto educativo unitario”, che superi la falsa impostazione secondo cui “a scuola si apprende e nell’extra-scuola si educa”.
E allora, per difendere la cultura dell’infanzia, riconoscendo a bambine e bambini la capacità di costruire attivamente il loro sapere, propone di moltiplicare i linguaggi, ripensare i modelli didattici, promuovere una “contaminazione tra nidi, servizi integrativi, luoghi urbani di prossimità e condomini” per rilanciare un sistema diffuso all’altezza dei bisogni dei bambini da zero a sei anni, insieme a un piano di formazione per ogni grado di scuola capace di intrecciare saperi, competenze e pratiche innovative di insegnanti, educatrici ed educatori.
Figure diverse
Per individuare i primi passi da compiere propone dei gruppi di lavoro insieme a rappresentanti del comune, dei municipi, degli insegnanti, delle associazioni pedagogiche, del terzo settore, delle agenzie culturali, degli architetti, ma anche dei servizi sanitari, del tribunale dei minori e delle università, perché per immaginare e progettare una città capace di sostenere il processo educativo e partecipare al suo sviluppo c’è bisogno delle più diverse professionalità.
Inoltre, chiede un aumento consistente degli organici e finanziamenti maggiori utilizzabili fin da subito per l’edilizia scolastica.
A far sperare che un così ricco e articolato elenco di buoni propositi non resti sulla carta o nelle interminabili maratone sul web tra i promotori dell’iniziativa c’è la presenza di Paolo Limonta che, oltre a essere maestro elementare nella scuola multietnica che si trova nel parco Trotter, sempre a Milano, è da tempo impegnato nella politica cittadina e riveste il ruolo di assessore all’edilizia scolastica, che lui vorrebbe trasformare in assessorato alle nuove architetture per l’apprendimento.
Di nuove architetture e rammendi urbani all’altezza delle sfide del momento c’è particolare bisogno a Milano, città dove è diffusa la piaga della “fuga bianca”, che vede sempre più famiglie lombarde scegliere le scuole private o desiderare per i propri figli un rassicurante confinamento monoculturale, allontanandoli dalle scuole-mondo caratterizzate da una forte presenza di studenti senza cittadinanza, provenienti da famiglie originarie delle più diverse latitudini.
L’esperimento di Torino
Per combattere il morbo di una nuova apartheid che rischia di incistarsi nel corpo affaticato di una scuola pubblica sempre più povera di risorse, credo sia interessante prendere in considerazione questa ipotesi: “Si parla tanto di rompere i ghetti urbani, ma è difficile poi accettare il principio che il modo migliore per farlo stia nel creare in periferia servizi migliori di quelli che si trovano nelle zone considerate privilegiate, fino a indurre i ceti medio-alti a complicarsi la vita pur di mettere a disposizione dei loro figli certi modi di stare insieme e di capire il mondo che si sperimentano in periferia”.
Sono parole tratte da La città che non c’era, il libro scritto in colloquio con Steve Della Casa da Fiorenzo Alfieri, assessore alla gioventù e allo sport di Torino dal 1976 al 1985, le cui intuizioni ed esperienze trovo particolarmente utili e attuali.
Nella città che esattamente cinquant’anni fa anticipò il tempo pieno, inaugurando un’organizzazione della scuola elementare ammirata in Europa, fu chiamato a svolgere il ruolo di assessore un maestro del Movimento di cooperazione educativa, che aveva promosso con altre e altri una delle sperimentazioni più audaci e radicali nelle periferie della città della Fiat, abitate allora da meridionali e oggi da immigrati.
L’idea è quella di una città capace di tornare a scuola e di una scuola in grado di aprirsi alla città
Il comunista Diego Novelli, eletto sindaco dopo la netta vittoria delle sinistre in molte città nella primavera del 1975, era convinto che “un comune non può investire solo su mattoni e traversine, ma anche sulle coscienze, perché i nostri figli devono essere migliori di noi”.
L’idea di una città capace di tornare a scuola e di una scuola in grado di aprirsi alla città porta il giovane assessore a promuovere “La città ai ragazzi”, l’esperimento più audace e diffuso di collaborazione tra città e scuola mai realizzato in Italia.
“L’ambizione di noi insegnanti”, scrive ancora Alfieri ricordando la sua esperienza di maestro, “fu sempre quella di contrastare il principio secondo cui l’offerta educativa e culturale, se vuole davvero incontrare gli strati più popolari, deve necessariamente abbassare il proprio livello. Cercammo di dimostrare l’esatto contrario e cioè che, lavorando in un certo modo con i bambini e con le loro famiglie, si poteva produrre il ‘miracolo’ di ottenere una qualità pari se non superiore a quella riscontrabile in ambienti socialmente più avvantaggiati”.
Spazi aperti
Ma per realizzare tutto questo su larga scala, cercando di coinvolgere tutte le scuole, Alfieri sa bene che le risorse interne non possono bastare. Convoca dunque riunioni e incontri con chi lavora nei teatri, nei musei, nelle biblioteche, ma anche nel commercio, nei servizi e nell’industria. L’idea dirompente è che la città si apra ai ragazzi senza mediazioni, che artigiani, artisti e aziende mettano a disposizione spazi e dedichino parte del loro tempo perché ragazze e ragazzi entrino ed esplorino i nodi vitali della città, accompagnati dai suoi protagonisti.
Il progetto è articolato con pignoleria piemontese e studenti di ogni età hanno l’occasione di costruirsi mocassini di pelle visitando le sale del museo etnografico dedicate ai nativi americani o di fare il pane con le loro mani in un forno allestito con il contributo economico dei fornai della città, che non possono ospitare gli studenti nei loro forni prima dell’alba. La casa editrice Einaudi offre l’occasione di percorrere l’intera filiera che porta dalla scrittura alla stampa di un libro e perfino le fogne di Torino si aprono, dando la possibilità ai più piccoli di esplorare quei misteriosi sotterranei.
Quest’ultima è una delle proposte più sorprendenti e apprezzate, insieme a un incontro intenso e globale con l’arte, proposto da teatri e musei dove bambini e ragazzi non vanno solo in visita, ma sono chiamati a muoversi, agire e interagire. All’inizio di ogni anno un articolatissimo ventaglio di proposte è offerto alle scuole grazie a una straordinaria partecipazione di segmenti significativi della società torinese, chiamata non solo a proporre, ma anche a finanziare questa apertura permanente a favore dei più giovani.
L’idea è che tutto ciò si faccia non solo e non tanto per dare una mano a migliorare la scuola, ma per ripensare la città come luogo collettivo e plurale di costruzione culturale.
Anni diversi
Certo, erano anni in cui la scuola era al centro dell’attenzione pubblica e la storia di un maestro schierato dalla parte degli ultimi nella periferia di Roma teneva incollati al primo canale tv 15 milioni di italiani per quattro sabati, grazie a Diario di un maestro, il magnifico film che un regista partecipe e sensibile come Vittorio De Seta aveva girato con i ragazzi di Un anno a Pietralata, il libro del maestro Albino Bernardini. Anni in cui i racconti scolastici di Mario Lodi raggiungevano decine di migliaia di lettori e la curiosità e l’attenzione verso ciò che di nuovo si stava sperimentando portò “parecchie famiglie della borghesia torinese illuminata, abitanti nel centro, a sobbarcarsi ogni giorno un lungo viaggio per portare i loro figli nella lontanissima Nino Costa, permettendo così a noi di ‘mescolare il sangue’ delle nostre classi”, come racconta Alfieri.
Nelle pagine di La città che non c’era il maestro-assessore azzarda un parallelo interessante tra scuola e città: “La matrice di questa convinzione è l’insegnamento del pedagogista russo Vygotskij, il quale negli anni venti formulò la geniale teoria della ‘zona di sviluppo prossimale’, che può essere sintetizzata così: il compito dell’educazione consiste nel porre accanto al soggetto da educare un’area di crescita che, grazie alla prossimità, riesca ad agganciarlo ma nello stesso tempo lo spinga a fare di più, ad andare oltre. Se l’azione educativa – della famiglia, della scuola ma anche della città – non riesce ad andare oltre, allora non serve alla comunità perché la lascia nello stato in cui l’aveva trovata.”
Non lasciare la città come la si trova fu l’idea che nel 1945, appena terminata la guerra, spinse Anna Maria Melli e suo marito Ernesto Codignola a fondare la scuola-città Pestalozzi in uno dei quartieri più poveri di Firenze, dando vita a un’esperienza originale e tutt’ora in vita. È anche all’origine di opere a cui sarebbe utile tornare oggi, come Scuola e società di John Dewey o Il bambino e la città di Colin Ward, in cui l’architetto anarchico inglese ricorda con lungimirante pragmatismo: “La pianificazione urbanistica della città deve tenere presente che i bambini devono poter usare la città, perché nessuna città è governabile se i cittadini non la sentono propria”.
Trovare forme e contesti per ridare la parola a bambini e ragazzi è dunque un compito prioritario, insieme a quello di individuare nuovi spazi per educare.
Da Palermo a Napoli
Nuove aspirazioni tornano dunque ad animare la discussione pubblica in diverse città. È stato presentato in questi giorni il progetto “Palermo SiCura”, un documento redatto dall’intera giunta del capoluogo siciliano guidato da Leoluca Orlando in cui, tra molti obiettivi da raggiungere, c’è quello di “individuare strade, vicoli, piazze di quartiere o di borgata, per le quali si propone la pedonalizzazione o la riduzione del transito veicolare con l’istituzione anche della ZTL (zona a traffico limitato, ndr), ai fini della loro trasformazione da luogo con caratteristiche di quasi esclusivo transito, come sono oggi, a luogo di svago, di socializzazione e di incontro, per produzione e fruizione della cultura”.
Una proposta particolarmente urgente oggi, in cui è necessario individuare nuovi spazi urbani che possano ospitare attività didattiche ed esperienze educative capaci di trasformare il necessario distanziamento fisico in esperienza innovativa di relazione tra le bambine, i bambini e la città, a partire da piazze e giardini da ripopolare anche in orario scolastico.
Di “stanare la scuola fuori dalle sue mura” parla anche un documento redatto da sei organizzazioni del terzo settore impegnate da anni a Napoli nel contrasto alla dispersione scolastica. Proponendo “azioni estive di educazione diffusa” vogliono arginare discriminazioni e povertà educative cresciute a dismisura nel tempo della non scuola, attivando “una sorta di reticolo di prossimità” capace di “bussare alla porta di chi si è perso”.
Andrea Morniroli, animatore storico del privato sociale a Napoli, ora impegnato nell’assessorato all’istruzione e alla scuola guidato da Anna Maria Palmieri, racconta di esperienze puntuali per scongiurare l’abbandono dopo la terza media chiamate “panchine dell’orientamento” o “bussole in un caffè”, per indicare i luoghi in cui si cerca di raggiungere ragazze e ragazzi, e talvolta anche i loro genitori, perché non restino fantasmi dopo i lunghi mesi di clausura domestica senza connessioni.
Racconta anche dello sforzo che si sta facendo in queste settimane per riunire associazioni impegnate in altre regioni, dall’Alleanza per l’infanzia a Saltamuri, da Aggiusta Italia al Forum disuguaglianze e diversità, fino al Forum education, alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, all’Unicef e al recente “Appello alla società civile”, firmato da associazioni e cittadini a metà aprile per chiedere una grande impresa collettiva di “presa in carico delle famiglie e dei lavoratori colpiti dalla crisi”, perché lo shock chiede visioni per affrontare non solo il contrasto alla pandemia, “ma anche e soprattutto una ricostruzione dei legami sociali”.
I laboratori di coprogettazione costruiti con fatica e tenacia a Napoli su iniziativa dell’assessorato scuola e istruzione mostrano una possibile strada perché sappiamo bene che la scuola, da sola, nei territori più difficili non ce la fa. Numerose ricerche confermano che il contrasto alle disuguaglianze è possibile solo se cresce la qualità culturale nei territori, che deve essere oggi alimentata da uno sforzo creativo profondo e radicale e da nuove e inedite alleanze, necessarie più che mai per affrontare la crisi che si aggrava.
Nel ricostruire le trasformazioni di una città come Torino nel mezzo secolo in cui è tramontata la centralità della fabbrica, Fiorenzo Alfieri mette in evidenza un dettaglio linguistico a cui attribuisce particolare rilevanza: “Cinquanta anni fa il termine cultura evocava ristrette enclave di intellettuali, salotti, cattedre universitarie. Adesso evoca un bene di consumo, nel senso più alto che si possa dare al termine. La parola cultura ha cambiato il suo significato, e i mutamenti semantici, come si sa, rivelano processi mentali molto complessi”. Conclude infine: “Se dovessi indicare quale è stato l’enzima che più di altri ha fatto crescere la nostra città in tutti questi anni io direi: la pedagogia”.
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