Non si considera mai abbastanza quanto rilievo abbiano i primi giorni di scuola nell’imprimere un segno all’anno che comincia.
Tra maestre e maestri da anni si discute di accoglienza e spesso si prepara qualcosa di speciale per far sentire a loro agio bambine e bambini. Credo tuttavia che il tratto che rivela la qualità degli scambi, che cominciano a prendere forma all’avvio di ogni nuovo anno, stia nella relazione tra il conoscere e il conoscersi, tra il bisogno di presentarsi o ripresentarsi agli altri e lo sperimentare da subito, il più presto possibile, un incontro appassionato con qualche conoscenza o linguaggio, capace di aprirci e aprire al nostro sguardo il mondo che ci circonda.
I bambini hanno un enorme bisogno di presentarsi. Temono il giudizio degli altri, come tutti noi, e cercano i più svariati modi d’entrare in scena. Spesso, inconsapevolmente, provano a calzare la maschera che ritengono possa essere maggiormente accolta e accettata. E allora c’è chi si mostra subito con esuberanza e clamore, chi punta a un riconoscimento più lento e intimo, chi si nasconde, e chi ha collezionato così tanti scacchi e ferite da ritenere che l’unico modo per essere visto stia nell’aggredire compagni o insegnanti o rompere i giochi per provocazione, sperando in questo modo di celare la propria sofferenza.
Comincia così il gran teatro delle relazioni reciproche, che tanta parte ha nello stabilire le prime relazioni d’affetto o estraneità verso l’impresa del conoscere, che comporta inevitabilmente fatiche e momenti di mancanza di senso.
Per capire un po’ meglio cosa sia utile fare, compiamo un piccolo viaggio nel tempo ed entriamo nella classe di Mario Lodi, straordinario maestro elementare di cui quest’anno festeggeremo i cento anni dalla nascita.
Nel suo diario didattico intitolato Il paese sbagliato, che Einaudi si appresta a ripubblicare a cinquant’anni dalla prima edizione, ecco come racconta il suo primo giorno in prima elementare.
I bambini si presentano dicendo i loro nomi e dove abitano, gli amici che hanno e il mestiere dei genitori. Le parole si accavallano, tutti vogliono dire e tacere quando i compagni parlano non è facile. “È la prima fase, quella del caos, è venuta subito”, commenta il maestro, aggiungendo: “Bene, tempo guadagnato”.
Ma ecco che a un tratto un acquazzone si abbatte sulla scuola e tutto si interrompe.
C’è un modo pigro e superficiale di intendere l’affettività nell’educazione
“Lì, di fronte alla natura che si scatena, i bambini si presentano un’altra volta: chi ha paura del tuono che brontola sopra di noi, chi invece ride, chi indica le nuvole basse che sembrano sfiorare la bandierina del campanile, chi schiaccia il naso contro il vetro, incantato dalla musica dell’acqua, il volto incorniciato in un’aureola di vapore alitato sulla fredda lastra. Ora una realtà oggettiva prende tutti e risuona dentro in modi differenti. (…) Affiorano alla memoria esperienze e ricordi, la conversazione si fa tumultuosa e ricca di spunti”.
Presentarsi parlando del temporale e ragionando sulle nuvole, ecco il primo punto che emerge in questa cronaca.
C’è un modo pigro e superficiale di intendere l’affettività nell’educazione, che porta a chiedere a bambine e bambini al mattino “come ti senti oggi?”, e appiccicare poi sul cartellone dei giorni una emoticon fotocopiata in cui l’alunno indica il suo umore scegliendo una faccina, che può essere allegra, triste, rabbiosa o perplessa.
Ma la via più interessante è sempre quella più lunga, quella capace di metterci davvero in gioco. Vale allora la pena di chiedere a un testo, a un dipinto, a una musica, a un albero o alla luna di farci da specchio, per scoprire e poter dire agli altri qualcosa di noi che forse non sapevamo, che nasce dal colloquio con quell’elemento naturale o artefatto culturale.
Oppure chiedere al temporale, come fecero i bambini di Piadena in quel giorno di ottobre del 1964.
È da lì che la giornata prende il via. Tutti disegnano l’improvvisa tormenta e poi parlano di ciò che hanno rappresentato. Il maestro scrive dunque alla lavagna la parola PIOVE e tutti “tentano di copiare, come possono, il disegno della parola”.
Intorno a come ciascuno ha reso la pioggia si anima una discussione con suggerimenti, critiche, osservazioni intelligenti.
Ora a disposizione di tutti ci sono le polveri e l’acqua per fare i colori e si comincia a dipingere. Un po’ di polvere cade, un gruppetto discute dove mettere gli strumenti della pittura sempre e il maestro annota: “Comincia l’educazione delle mani e il senso dell’ordine”.
Di nuovo qui è la sequenza che è esemplare: prima un’attività, con i problemi reali che sorgono, poi le regole utili, che sono da scoprire insieme, concordare e condividere, rendere efficaci.
“Mi pongo come fine, in prospettiva, una comunità organizzata ed efficiente”, scrive il maestro in questo primo capitolo, intitolato significativamente “Un giorno come un seme”.
Ma la storia non finisce qui perché, mentre si mostrano le pitture, “Fabio comincia a tamburellare disturbando”. Altri lo imitano, e il maestro non li interrompe. Coglie piuttosto le potenzialità di quell’improvvisazione che devia dal percorso previsto. “Quel rumore assomiglia proprio a quello della pioggia che cade, qualche volta leggera, qualche volta scrosciante. Proviamo a battere leggermente i polpastrelli sui banchi, e la pioggerella si fa minuta minuta. Poco dopo ecco l’acquazzone che rimbomba, ottenuto percuotendo le nocche. Il giochetto piace perché l’effetto è veramente suggestivo, tanto che lo scroscio esterno si confonde col rumore della nostra pioggia”.
Non c’è mimesi che non appassioni l’infanzia, e forse sarebbe bello giocare a imitare la natura a ogni età.
Ma non finisce qui, perché alla musica fa seguito un momento di teatro improvvisato, con l’invenzione di una storia che vede protagonisti una nuvola, il sole e tre foglie.
Nuvole e sole troveranno poi posto anche come simboli, nel progetto di un cartellone da quadrettare, adatto a registrare e sintetizzare con prime tracce matematiche lo scorrere dei giorni e il mutare del tempo nelle diverse stagioni.
Le attività sono state dunque tante e diverse e tutti hanno trovato un loro posto in questo primo giorno di scuola, decisamente denso e ricco. Ma ecco una nuova sorpresa. È giunto il momento in cui il maestro mostra a bambine e bambini un nuovo strumento che accompagnerà la vita della classe per tutti e cinque gli anni: il limografo, “che se gli dai un disegno te ne fa tanti uguali”.
Compaiono così i primi fogli del giornalino della classe, perché nel metodo che Mario Lodi mise a punto con le compagne e compagni del Movimento di cooperazione educativa, attivo già dai primi anni cinquanta, la documentazione di ciò che si va facendo in classe ha un valore cruciale, perché quello strumento tipografico artigianale, ispirato alle intuizioni pedagogiche di Célestin Freinet, permette ai bambini di stampare i loro disegni e i loro primi testi, dando così peso e significato a ciò che stanno scoprendo e sperimentando.
Già, ma non dovrebbe essere proprio questo il senso della scuola? Indagare il mondo e ciò che è accaduto nella storia in ogni campo utilizzando molteplici forme di espressione e riuscire a farlo insieme, senza escludere nessuno, giovandosi delle diverse sensibilità e culture che oggi popolano le nostre classi?
Ho evocato ciò che accadeva e ancora oggi accade in tante classi di scuola primaria, ma l’ascolto attento e la valorizzazione di ciò che pensa e scopre ciascuno, moltiplicando attività e linguaggi e trasformando più acquisizioni di conoscenze possibili in laboratori vivi, vivaci e partecipati, credo riguardi, seppure in modi diversi, ogni età e ogni grado di scuola.
La questione aperta, sempre difficile da affrontare, è come far sì che l’apprendimento si nutra di ricerca nella scuola e che lo studio sia occasione per scoprire qualcosa di più di se stessi, non perdendo il senso di ciò che si sta facendo.
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