Mentre aspettiamo con impazienza il voto del congresso statunitense sull’attacco alla Siria - che secondo Foreign Policy potrebbe rivelarsi assai meno limitato di quanto affermato - possiamo ingannare il tempo ripassando le prove finora fornite sulla responsabilità del governo di Bashar al Assad nell’apparente bombardamento con armi chimiche avvenuto il 21 agosto alla periferia di Damasco, casus belli dell’intervento.
Il governo francese, il più convinto della necessità di punire Assad dato che sembra voler fare a meno dell’autorizzazione del parlamento, è anche l’unico ad aver presentato un rapporto d’intelligence a sostegno della sua tesi. Il punto conclusivo afferma che “nessun gruppo appartenente all’opposizione siriana possiede la capacità di utilizzare questi agenti [chimici]”, quindi l’attacco non può essere stato compiuto se non dall’esercito di Assad. Questo argomento - oltre a escludere a priori la presenza nel teatro siriano di altri attori dotati di tali capacità, che non è ragionevole scartare - è in totale contrapposizione con le dichiarazioni rilasciate a maggio da Carla Del Ponte, direttrice della commissione d’inchiesta Onu, secondo cui c’erano “sospetti forti e concreti” che i ribelli avessero usato armi chimiche nel conflitto. Secondo Del Ponte non c’era la “prova incontrovertibile”, ma per gli ispettori Onu evidentemente i ribelli non sono affatto sprovveduti come vengono dipinti a Parigi.
Il governo statunitense invece sembra basarsi soprattutto sulle intercettazioni fornite dall’unità 8200 dell’esercito israeliano, in cui i militari siriani parlerebbero dell’attacco e delle sue conseguenze. Dato che il governo britannico ha ammesso di non disporre di queste informazioni, le conversazioni devono essere sfuggite alle sensibilissime orecchie della base del Gchq - l’equivalente britannico dell’Nsa statunitense, recentemente finito sulle prime pagine per il suo coinvolgimento nello scandalo Prism - sui monti Troodos a Cipro, su cui anche gli Stati Uniti si basano per monitorare la regione mediorientale.
Secondo l’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che conosce bene la base avendo diretto la sezione cipriota del Foreign & Commonwealth Office, ci sono solo due spiegazioni: o le conversazioni sono avvenute unicamente tramite linee terrestri che gli agenti israeliani hanno intercettato fisicamente, oppure sono artefatte.
Murray non ha dubbi: la risposta è la seconda. Noi giornalisti invece qualche dubbio dovremmo continuare ad averlo, almeno finché non potremo consultare l’intelligence originale alla base delle prove. Quello sì che sarebbe un passatempo interessante mentre aspettiamo i Tomahawk.
Gabriele Crescente è l’editor italiano di presseurop.eu. È su Twitter.
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