A pochi giorni dalla sua vittoria di Pirro alle elezioni regionali, a Matteo Renzi non poteva capitare niente di peggio che la seconda puntata dello scandalo di Roma “mucca da mungere”. E che a mungere fossero anche parecchi esponenti del Partito democratico è innegabile.
Il presidente Matteo Orfini fa esercizio di autosuggestione: “Siamo tranquillissimi. Il Pd può presentarsi a testa alta davanti ai romani”. Ma non lo farà, perché deve aspettarsi reazioni non proprio amichevoli.
Il sindaco Ignazio Marino convoca d’urgenza il consiglio comunale, ma manca il numero legale. La sua versione dei fatti è quantomeno originale: “Oggi vince la Roma per bene”. Dopo tutte le sue vicissitudini, Marino si conferma un eroe tragico. Non c’è dubbio che abbia agito contro la corruzione, ma per pulire la palude romana servirebbe un bulldozer politico che il chirurgo genovese certamente non è. Ora in caso di scioglimento del consiglio comunale il Pd deve temere una vittoria del Movimento cinque stelle.
Renzi cerca di non farsi coinvolgere dagli scandali romani, anticipati magistralmente da Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini nel loro romanzo La suburra. “Chi ha rubato dev’essere cacciato dal Pd”, decreta il premier, che a cinque giorni dalle elezioni sta meditando ancora sulla strategia per sciogliere la complicata matassa di Vincenzo De Luca in Campania.
Ma è solo uno dei problemi che gli turbano il sonno. Con l’uscita di due popolari, la sua maggioranza al senato si è ridotta a sette. Aumenta il rischio di imboscate della sinistra, uscita rafforzata dal risultato elettorale e a cui Renzi dovrà fare concessioni sulla scuola, sulla riforma del senato e forse anche sull’Italicum. La riforma della scuola slitterà a fine mese, con il rischio di non poter assumere in tempo centomila precari.
“Abbiamo perduto un sacco di occasioni, quanti rigori abbiamo sbagliato, ma ora si volta pagina”, promette Renzi. Ma il suo risultato elettorale fa presumere piuttosto il contrario. Perché in Italia chi fa le riforme viene inesorabilmente punito dagli elettori. Ritorna la politica dei vecchi rituali. La sinistra, divisa in tre tronconi, chiede “una verifica a tutto campo”.
Incontrerà degli ostacoli anche l’intenzione del premier di riformare il Pd e di proporre un nuovo modello di partito snello e agile con regole per la convivenza interna per evitare la formazione delle correnti. Obiettivo: ridurre il numero dei dissidenti interni che ora agiscono come un partito nel partito. Anche su questo punto ci sarà molta resistenza.
Ma c’è un altro appuntamento che per Renzi potrebbe trasformarsi in vero incubo: il 23 giugno la corte costituzionale si occuperà del ricorso dei sindacati contro il blocco dei contratti pubblici dal 2010. La posta in gioco è vertiginosa. L’accettazione del ricorso comporterebbe per le casse dello stato un costo di 35 miliardi di euro, con il rischio di rendere definitivamente insanabile il debito pubblico.
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