Arrivare al cuore della musica di Bruce Springsteen non è semplice. Si è distratti da tante cose. Per esempio dalla retorica, alimentata involontariamente anche da lui stesso, che lo vuole come un cantautore patriottico tutto muscoli e sorriso, fatto a uso e consumo del maschio bianco americano con la pancetta e i capelli bianchi. O dall’idea che sia solo una delle tante rockstar un po’ bollite sopravvissute agli anni settanta e ottanta.
Bruce Springsteen, nato il 23 settembre 1949 a Long Branch, nel New Jersey, è invece un pezzo importante della cultura statunitense contemporanea, un cantautore impegnato che denuncia da anni le contraddizioni del suo paese e va studiato con serietà accademica, come in effetti succede oltreoceano.
La settimana prossima il Boss, soprannome guadagnato nel New Jersey negli anni sessanta e adottato dai fan, sarà in Italia per la prima delle tre date del suo tour italiano: suonerà per due sere allo stadio San Siro di Milano (3 e 5 luglio) e il 16 luglio si esibirà al Circo Massimo. Una scusa come un’altra per rinfrescarsi la memoria sul suo conto.
L’America, il lavoro e il sogno infranto
La musica di Bruce Springsteen ha delle coordinate geografiche ben precise, anche se negli anni si è sempre più universalizzata. Nelle sue canzoni c’è l’America di Bob Dylan e di Elvis Presley, di John Steinbeck e Woody Guthrie. È l’America di provincia, quella degli operai e della classe media, delle vittime della crisi economica, della discriminazione e dei pestaggi della polizia.
Le sue canzoni si nutrono di tante piccole storie che, prese una per una, non hanno niente di epico, ma che tutte insieme descrivono l’identità di una nazione. Con un occhio particolare ai perdenti, a quelli che non ce l’hanno fatta. Come ha detto lui stesso nel 2012 durante una conferenza stampa a Parigi: “Ho passato tutta la mia vita a valutare la distanza tra la realtà americana e il sogno americano”.
Il lavoro, ancora oggi, è un tema centrale in tutta la produzione del musicista del New Jersey. Il lavoro che intrappola i protagonisti dei suoi brani, ma che per loro è l’unica alternativa alla povertà. Ma anche il suo lavoro, dato che Springsteen vive la sua carriera con una serietà e una dedizione difficilmente riscontrabile tra i suoi colleghi. Attorno a questo tema Alessandro Portelli ha costruito un saggio molto interessante, Badlands, pubblicato nei mesi scorsi da Donzelli.
Badlands inquadra molto bene la prospettiva politica della rockstar del New Jersey, un testimone di quell’ideologia di sinistra liberal statunitense per la quale l’orgoglio patriottico e la rivendicazione dei diritti vanno di pari passo. Una cosa un po’ aliena rispetto alla nostra prospettiva europea.
Nato negli Stati Uniti
Come ricorda Portelli, i fan di Springsteen si distinguono dagli ascoltatori occasionali in base a quello che pensano di Born in the Usa, il suo brano più famoso e al tempo stesso più equivocato.
L’incedere marziale del pezzo, pubblicato nel 1984 ma nato durante le session dell’oscuro Nebraska, fa pensare a un inno patriottico. Peccato che la canzone cominci con queste parole:
Nato laggiù in una città di morti
il primo calcio l’ho preso quando ho toccato terra
fai la fine di un cane che è stato pestato troppo a lungo
fino a quando passi metà della tua vita a nasconderti
Il protagonista della canzone non è un americano felice a bordo di una decappottabile. È un reduce dalla guerra in Vietnam, che torna in patria e non trova lavoro. Esattamente il contrario di quello che hanno pensato e pensano ancora molte persone che la ascoltano. Lo stesso Ronald Reagan all’epoca non capì proprio bene il senso di Born in the Usa e provò goffamente a usarla per la sua campagna elettorale, facendo arrabbiare non poco l’autore.
Di ultimi, di reietti, se ne trovano tanti nelle canzoni di Springsteen. Non sempre la loro storia è così violenta o disperata come quella di Born in the Usa, ma difficilmente ha un lieto fine. Se in Born to run o in Badlands la fuga dalla provincia e dalla mediocrità raggiunge toni epici e ottimistici, in The river o Youngstown (altro splendido ritratto della vita operaia americana) assume quelli amari del rimpianto. Altre volte ancora questi brani si sviluppano sullo sfondo di vere e proprie tragedie personali, come in Atlantic City, o collettive, come in The rising, il disco pubblicato dopo l’11 settembre.
Con gli anni, l’attenzione di Springsteen per gli ultimi è diventata più complessa e stratificata: agli americani per esempio si sono aggiunti i migranti, che sono i protagonisti di The ghost of Tom Joad, brano ispirato a quel grande romanzo di denuncia che è Furore di John Steinbeck. Il testo del brano cita il discorso d’addio fatto da Tom Joad, il protagonista del libro, alla madre:
Mah, forse aveva ragione Casy, e ognuno di noi
non ha un’anima propria
ma solo un pezzo di un’anima più grande
E quindi Tom?
E quindi non importa. Starò in giro nell’oscurità. Sarò ovunque tu guardi. Dovunque ci sarà da lottare perché
le persone affamate possano mangiare, io ci sarò. Ovunque ci sarà un poliziotto che picchia un ragazzo
io ci sarò
Il grande intrattenitore
Bruce Springsteen non è un’artista unidimensionale: sarebbe sbagliato ridurre la sua figura a quella di un musicista politico alla Billy Bragg. Ha le sue contraddizioni: ama le belle macchine, non gli fa schifo essere una star e ha costruito la sua fama soprattutto sui grandi spettacoli dal vivo nelle arene e negli stadi, quasi sempre insieme al suo gruppo di fiducia, la E Street Band. Nei suoi concerti, dove non mancano momenti smaccatamente pop, preferisce consegnare i suoi messaggi politici a un pubblico in festa anziché che a un gruppo di intellettuali depressi.
Claudio Trotta, promoter della Barley Arts, organizza i concerti italiani di Bruce Springsteen dal 1999 ed è un testimone privilegiato del modo in cui il Boss costruisce i suoi spettacoli.
“La prima volta che l’ho incontrato di persona è stato negli anni novanta, durante il tour acustico per The ghost of Tom Joad”, racconta Trotta. “All’epoca ero associato a Franco Mamone, il suo primo promoter italiano. Durante il tour, Franco mi chiese di organizzare una cena con Bruce in una trattoria dei Navigli, a Milano. Ricordo come fosse ieri il momento in cui Springsteen entrò nel ristorante insieme a noi e calò il silenzio dentro la sala. Dopo l’ho portato in piazza Vetra, dove c’erano migliaia di persone sedute a suonare e chiacchierare. Lui si è dileguato per mezz’ora, scappando dalla sua guardia del corpo, per mescolarsi alla gente in piazza. Aveva la coppola e nessuno l’ha riconosciuto, probabilmente. Lo fa spesso di allontanarsi da solo, a volte anche per incontrare i fan che lo aspettano di notte sotto l’albergo”.
La domanda viene spontanea: come nasce un concerto di Bruce Springsteen? “Di solito Bruce scrive la scaletta subito prima di salire sul palco. Non prova le canzoni di pomeriggio, perché la E Street Band conosce a memoria il repertorio”, spiega Trotta, “Durante i suoi concerti c’è un’enorme componente d’improvvisazione, che di solito viene collaudata prima dell’inizio del tour. E la cosa buffa è che alla fine la scaletta non viene quasi mai rispettata, perché arrivano le richieste del pubblico e lui cerca il più possibile di accontentarle”.
Come ha scritto David Remnick in un lungo articolo del 2012 uscito sul New Yorker, i concerti di Bruce Springsteen sono un processo di adorazione comune tra artista e pubblico. Steve Van Zandt, il chitarrista della E Street Band, li definisce “messianici”. “Forse Van Zandt faceva riferimento alle messe gospel e in questo senso ha ragione. In generale non amo le metafore religiose per descrivere i concerti”, ribatte Trotta, “spesso un concerto è una messa, con l’officiante e gli adepti che celebrano la magnitudine della persona sul palco. Il concerto di Bruce è il contrario. Lo spettacolo è fatto anche dal pubblico. Una volta ne abbiamo parlato e gli ho detto che durante i suoi concerti succede qualcosa di simile a quello che accadeva con i Grateful Dead: le persone partecipano in modo gioioso a una festa collettiva, a una celebrazione della vita”.
Bruce Springsteen sa che il suo talento non è illimitato. Negli anni la qualità dei suoi dischi è scesa, ma la coerenza del suo percorso artistico non è stata intaccata. I suoi concerti, poi, sono ancora i migliori sulla piazza: durano più di tre ore e difficilmente deludono. Alla fine dello show si fa gara a chi è più sudato, tra lui e il pubblico. Del resto, come ha detto lo stesso Springsteen:
Dylan era un rivoluzionario, anche Elvis lo era. Io non sono così. Mi vedo piuttosto come un meccanico. Sentivo che se mai avessi concluso qualcosa lo avrei fatto in un lungo periodo di tempo, non in un’enorme esplosione di energia o di genio. Per mantenere il senso delle proporzioni lo consideravo un lavoro, qualcosa che fai tutti i giorni e per molto tempo.
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