Ne è passato di tempo, da quando i Depeche Mode sono saliti su un treno diretto a Londra per andare a Top of the pops. Era il 1981 e si portavano i sintetizzatori sottobraccio. Per la band britannica, i synth erano l’equivalente delle chitarre per i punk: strumenti con cui scrivere e registrare canzoni in modo semplice e immediato, senza filtri. Quell’ospitata in televisione è stata il primo passo verso il successo. Ma in quegli anni i Depeche Mode erano ancora dei ragazzi tranquilli e un po’ timidi di Basildon, una piccola cittadina dell’Essex.

Martin Gore e Andy Fletcher avevano da poco lasciato, non senza qualche riluttanza, il loro impiego sicuro in banca e nelle assicurazioni per dedicarsi solo alla musica. Dave Gahan era ancora un dandy di provincia, non certo la rock star eroinomane e autodistruttiva degli anni novanta. La vera anima musicale della band, e il principale compositore, era Vince Clarke, che avrebbe lasciato la band poco dopo per formare gli Yazoo. I Depeche Mode sembravano una meteora, una delle tante band per ragazzini britannici degli anni ottanta.

Oggi sono passati 36 anni e le cose sono cambiate parecchio. I Depeche Mode sono diventati una multinazionale del pop, una band paradossalmente più famosa e celebrata negli Stati Uniti e nell’Europa continentale che in patria. Un gruppo che fa “musica per le masse”, come recita il titolo di uno dei loro dischi più riusciti, pensato inizialmente in chiave ironica ma diventato profetico.

Musica e rivoluzione
Cosa fa una band come loro nel 2017? Come si fa a fare musica di qualità e continuare a riempire gli stadi a cinquant’anni suonati? Non è semplice, è come stare in equilibrio su una fune. Gli U2, per esempio, continuano a riempire gli stadi ma non fanno più un album all’altezza del loro nome da diversi anni e per il momento hanno deciso di rifugiarsi nella nostalgia. I Depeche Mode finora sono riusciti a tenere botta, pubblicando qualche album opaco ma senza mai snaturarsi.

Il 17 marzo esce Spirit, il quattordicesimo album della band britannica. Per cavarsi d’impiccio, i Depeche Mode hanno scelto un bravo produttore: James Ford dei Simian Mobile Disco, già al lavoro con Arctic Monkeys, Klaxons e Mumford & Sons. L’obiettivo è rinfrescare, senza snaturarlo, lo stile della band, sempre in bilico tra elettronica e rock.

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Questa non è una novità: i Depeche Mode sono sempre stati accorti nella scelta degli arrangiamenti e dei collaboratori. Quello che sorprende invece è la scelta di fare un disco politico, così incentrato sull’attualità. Martin Gore, uno dei più raffinati autori di canzoni pop in circolazione, non è mai stato un cantante di protesta. Nei suoi brani non ha risparmiato critiche alla società moderna (vengono in mente il pacifismo di People are people e l’utopia romantica di Stripped, uno dei brani di punta del capolavoro Black celebration), ma l’ha sempre fatto con un tono dimesso, introspettivo, senza consegnare chiavi di lettura univoche agli ascoltatori.

A proposito di politica, nei giorni scorsi Richard Spencer, esponente della nuova destra americana, ha definito i Depeche Mode “la band ufficiale dell’alt right”, ma Dave Gahan e compagni hanno rimandato i complimenti al mittente.

Spirit, già dalla copertina curata dal solito Anton Corbijn, mostra un tono più militante rispetto al passato. Lo si capisce dal brano mid-tempo che apre il disco, intitolato Going backwards. “Stiamo tornando indietro, armati di nuove tecnologie, torniamo indietro all’età della pietra”, canta Gahan, sostenuto da un tappeto sonoro minimalista nel quale spicca un basso corposo.

Il testo del singolo Where’s the revolution?, dove i sintetizzatori sono in maggiore evidenza, è ancora più esplicito. Il brano è un appello sarcastico all’impegno politico contro le ingiustizie e i nazionalismi, in cui Dave Gahan dichiara che la “gente lo delude” perché non scende in piazza. La ballata The worst crime, dove la chitarra di Gore è in primo piano e il cantante sfodera un’ottima performance vocale, immagina un presente/futuro distopico in cui le piazze delle città diventano delle gogne pubbliche.

Il canto del fallimento
Dal punto di vista degli arrangiamenti, Spirit è spostato sicuramente più verso il rock/blues che verso l’elettronica, soprattutto nella prima parte. In questo ricorda il precedente Delta machine. I momenti elettronici ci sono, a partire dalla doppietta di Scum e You move. Da un punto di vista sonoro, si sente parecchio l’impatto del produttore James Ford. In particolare in Cover me, il primo dei brani firmati da Dave Gahan, che forse è il momento più ispirato dell’intero disco. Nella prima parte, il pezzo rimane in territori vagamente pinkfloydiani, mentre nella seconda parte viene fuori l’elettronica.

A un certo punto, Martin Gore si ritira nel suo cantuccio per la ballata Eternal, che rappresenta un momento catartico dopo l’inizio oscuro dell’album. In Poison heart, altro brano di Gahan, riemerge di nuovo il tocco di Ford, che avvolge la voce del cantante con chitarre alla Arctic Monkeys.

Nella seconda parte del disco c’è qualche momento di debolezza. So much love sa troppo di già sentito, mentre in Poorman le invettive politiche affondano nei luoghi comuni. Nel brano di chiusura, Fail, Martin Gore confessa che “we’re fucked” e nell’ultimo verso, con ancora più amarezza, ci dice che gli esseri umani hanno fallito.

Spirit non è di certo un capolavoro. Ha il difetto principale di non avere un singolo all’altezza (questo è strano, perfino in un disco debole come Sounds of the universe c’era un pezzo come Wrong) e di avere almeno un paio di riempitivi (una scaletta di nove brani sarebbe stata perfetta).

Nel suo insieme però, Spirit è un disco solido e coerente. I Depeche Mode sembrano improvvisamente invecchiati e sono diventati anche un po’ pessimisti e rancorosi. La sorpresa è che questo non nuoce alla loro musica, anzi. Sembra aver dato alle canzoni una rinnovata vitalità, una voglia di dire ancora qualcosa sul mondo.

Correzione, 17 marzo: nella versione originale dell’articolo si attribuiva la composione del brano The landscape is changing a Martin Gore.

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