Era l’estate del 1997 e facevo le medie. Nel salotto di casa mia a quei tempi avevamo una tv abbastanza piccola, e spesso per guardarla mi mettevo in piedi a un metro di distanza, anche meno. Lo facevo soprattutto quando passavano i video musicali. Su Mtv e Videomusic trasmettevano spesso quello di una canzone che mi piaceva tantissimo. La riconoscevo subito, perché all’inizio i musicisti scendevano da un elicottero. Ogni volta che accendevo la tv speravo di vederlo di nuovo. Loro si chiamavano Oasis e il brano s’intitolava D’you know what I mean?. Qualche mese dopo, ripensando a quel video con l’elicottero, ho deciso che volevo saperne di più su quel gruppo e sono andato in un negozio di dischi e ho comprato il mio primo cd: Be here now.

Questa premessa autobiografica, forse di nessun interesse per i lettori, serve a dire una cosa: è difficile scrivere di un disco quando si ha un legame affettivo forte con le sue canzoni, soprattutto se quel legame risale agli anni della formazione. Be here now per me è stato il primo approccio con il rock straniero contemporaneo, mi ha sconvolto l’adolescenza. A tredici anni non volevo solo ascoltare gli Oasis: volevo vestirmi come loro, atteggiarmi come loro, camminare come loro (sì, fa ridere, ma è così). Erano spacconi, eccessivi, divertenti, e sfornavano ritornelli che si incollavano subito alle orecchie. Per me, a quei tempi, le canzoni di Be here now erano tutte dei capolavori.

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Be here now, che uscì il 21 agosto 1997 circondato da un’attesa febbrile, appena un anno dopo lo storico concerto della band a Knebworth e all’apice della fama dei fratelli Gallagher, ha appena compiuto venticinque anni ed è stato festeggiato con una nuova ristampa. E, nel bene e nel male, resta un disco storico, a prescindere dalle mie fisse adolescenziali.

È l’album che ha chiuso l’epoca del britpop, affogando quella musica nella cocaina e in una grandeur che non era più sostenibile per nessuno, a partire dagli stessi fratelli Gallagher. È la cronaca di un tentativo fallito, quello di costruire un’opera di pop-rock psichedelico ambizioso e complesso, che nonostante tutto suona ancora coinvolgente e viva. Anche se il suo creatore, Noel Gallagher, ha disconosciuto Be here now in tutti i modi possibili, e si rifiuta di suonarlo dal vivo da anni. Secondo Noel le troppe aspettative dei fan e degli addetti ai lavori e la decisione di entrare in studio subito dopo la fine del tour di What’s the story morning glory? gli impedirono di dedicarsi alla composizione e alla registrazione dei pezzi con la dovuta lucidità. Gli eccessi ai quali la band era abituata poi di certo non aiutavano.

Eppure questo è l’ultimo disco degli Oasis all’altezza della loro fama, perché già a partire dal successivo (seppure ottimo) Standing on the shoulder of giants, la band di Manchester è diventata un’altra cosa: un gruppo famoso, in grado di riempire i grandi palazzetti, ma che già campava di rendita e non sembrava in grado di lasciare il segno sul resto del panorama britannico. Intorno al 1997 gli Oasis, invece, in Europa erano veramente qualcosa di vicino ai Beatles a livello di popolarità (negli Stati Uniti non riuscirono mai a sfondare), erano delle icone.

Ascoltare Be here now a posteriori è come vedere la sconfitta di un grande pugile. È chiaro che sta perdendo, ma qua e là riesce ancora ad assestare dei grandi colpi. La già citata D’you know what I mean?, pur nella sua estrema prolissità, resta una grande canzone con un ritornello all’altezza della penna di Noel Gallagher, con un beat di batteria campionato addirittura da Straight outta Compton degli N.W.A. (faccio fatica a pensare a due universi musicali più lontani, eppure). Così come i chitarroni rumorosi e le solite sfacciate citazioni beatlesiane – tutto il disco ne è pieno, a partire dalla copertina, scattata dal fotografo Michael Spencer Jones, che ha descritto il set fotografico come “ un caos totale” – di My big mouth, che contiene una delle migliori performance vocali della carriera di Liam Gallagher. Ma si potrebbe andare avanti: io per esempio vado matto per uno dei pezzi più bistrattati, Fade in out, una specie di folk rock desertico con Johnny Depp alla chitarra, e per la ballata alla Neil Young Magic pie, che arriva senza nessun motivo apparente a 7 minuti e 19 secondi di durata eppure mi emoziona ogni volta.

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Il simbolo dell’eccessiva ambizione dell’intero progetto è però All around the world, un pezzo che Noel Gallagher teneva nel cassetto da anni, convinto di avere in mano il suo capolavoro definitivo, che finì affogato in un’ingombrante arrangiamento orchestrale. Dura nove minuti e venti secondi, e nella seconda parte non fa che ripetere “nananana”, inseguendo vanamente Hey Jude. Molto meglio la successiva It’s getting better (man!!), un pezzo rock con un altro ritornello niente male.

Come sarebbe stato Be here now senza cocaina, senza un budget illimitato da spendere per lo studio e con un vero produttore in grado di mettere un freno ai fratelli Gallagher? Non lo sapremo mai. Secondo me sarebbe stato un grande disco: nonostante la confusione da cui è nato, i pezzi c’erano tutti. Il vero calo d’ispirazione per Noel Gallagher (negli ultimi anni drammatico, ma magari si riprenderà, un po’ ci spero) doveva ancora arrivare.

Nel 1997 nel Regno Unito uscirono grandi album: da Ok computer dei Radiohead a The fat of the land dei Prodigy, da Portishead dei Portishead a Ladies and gentlemen we are floating in space degli Spiritualized. Un anno dopo sarebbe arrivato Mezzanine dei Massive Attack. Insomma, la musica stava andando da tutt’altra parte e gli Oasis erano già chiaramente superati. Erano rockstar innamorate degli eccessi di Keith Moon, cresciute a pane e John Lennon. Erano ancora giovani, ma già nostalgici. Non erano pronti a vivere i primi anni duemila, a rappresentarne la complessità, erano figli dell’entusiasmo e dell’ottimismo degli anni ottanta. Non erano Thom Yorke o Kurt Cobain, né volevano esserli, perché cantavano cose come “You and I are gonna live forever”. Be here now, ascoltato oggi, suona come la loro resa, il loro testamento di band antintellettuale e genuina, insofferente verso la critica musicale (un sentimento ampiamente ricambiato), capace di alte vette compositive eppure tutto sommato limitata. Be here now è stato un fallimento, ma un fallimento in grande stile.

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