10. Marta Del Grandi, Selva
Selva, l’unico pezzo cantato in italiano del secondo disco di Marta Del Grandi, comincia con un suono straniante, che sembra il ronzio di un insetto. Piano piano, con grazia, aggiunge nuovi elementi, mentre descrive sentieri stretti e tortuosi. E sintetizza l’approccio al pop della cantautrice milanese: Del Grandi rifugge la via più scontata per arrivare alla melodia, ma comunque ci arriva. Lo dimostrano anche le più orecchiabili Mata Hari e le due parti di End of the world, che approcciano il folk con gusto e originalità.
9. Colapesce Dimartino, Lux eterna beach
Il duo siciliano padroneggia con la solita naturalezza l’arte della canzone, come dimostra il singolo La luce che sfiora di taglio la spiaggia mise tutti d’accordo, saggio di bravura in bilico tra Battisti e i Radiohead di Weird fishes/Arpeggi. Forse domani (con Joan Thiele) è un altro pezzo forte del loro disco, con le sue calde atmosfere anni settanta. Va meno bene quando il duo si lascia andare alla satira sociale (Ragazzo di destra) e alla nostalgia forzata (il duetto virtuale con Ivan Graziani). Ma nel complesso Lux eterna beach è un buon disco, avercene.
8. Calibro 35, Nouvelle aventures
Dopo gli omaggi a Morricone, i Calibro 35 sono ripartiti per una serie di viaggi straordinari, per citare il Jules Verne che ogni tanto viene in mente ascoltando Nouvelle aventures, un disco con la fantascienza dentro. Nouvelle aventures flirta con atmosfere esotiche (in Mompracem si cita Salgari), ma sa anche colpire bene sotto la cintola (qua e là spuntano riff granitici, come quello di Gun powder). Stavolta non c’è nessun brano cantato, e si ha l’impressione che la band volesse registrare questo disco prima di tutto per se stessa. E non è certo un male.
7. Salmo e Noyz Narcos, CVLT
Dopo un inizio in sordina, tra novembre e dicembre il rap italiano ha inondato le classifiche con una serie di ritorni di grandi star. A conti fatti, tra Sfera Ebbasta, Ghali, Massimo Pericolo e Tedua (uscito a giugno), per quanto mi riguarda l’hanno spuntata le due vecchie volpi Salmo e Noyz Narcos. CVLT è un disco sincero, rappato in modo impeccabile, pieno di citazioni come un film di Tarantino, e soprattutto ricco di autoironia, senza l’eccessiva rivendicazione della propria street credibility che ormai comincia a stancare. Mezzo punto in più per Respira, che campiona con classe Breathe dei Prodigy e regala spazio al sempre eccezionale Marracash.
6. Madame, L’amore
Del talento di Madame si scrive da anni. Ma finora, a parte nel folgorante singolo d’esordio Sciccherie, in studio l’artista di Vicenza non era mai riuscita a convincermi del tutto. Con L’amore, invece, mi è sembrata finalmente a fuoco, soprattutto perché ha scelto di contaminare il suo pop-rap con il cantautorato. In Quanto forte ti pensavo, con quel piano vintage, sembra quasi voler fare la diva anni sessanta. Se prosegue su questa scia, la sua carriera sarà lunga e interessante.
5. Rareș, Femmina
Rareș è cresciuto a Marghera ma è nato a Bârlad, in Romania. Con il suo secondo disco ha preso una direzione quasi da freak rispetto al precedente Curriculum vitae, che era più educato ma anche più prevedibile. Stavolta ha frullato dentro un unico contenitore Animal Collective, Frank Ocean, hip-hop underground e hyperpop. Scrive come un rapper gentile, accompagna la sua voce multiforme con autotune e distorsioni, circondandola di chitarre e sintetizzatori, in riusciti bozzetti pop come Ahinoi e Fazzoletti. Uno dei talenti più interessanti emersi in Italia negli ultimi anni. A tratti è ancora acerbo, ma ha un grandissimo potenziale.
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4. Geolier, Il coraggio dei bambini
Un disco rap interamente in napoletano – con poche concessioni al gusto dominante, se non un paio di featuring (Sfera Ebbasta, e chi sennò) – ha portato Geolier in testa alle classifiche e all’attenzione degli appassionati di rap in tutta Italia. Il coraggio dei bambini è la storia di una consacrazione artistica, che condurrà il suo autore addirittura a Sanremo (forse è troppo presto?). Sarebbe bellissimo se all’Ariston Geolier si esibisse con un pezzo come questo, fregandosene ancora una volta delle convenzioni.
3. Vinicio Capossela, Tredici canzoni urgenti
Il dodicesimo album di Vinicio Capossela si rivolge molto al presente, fin dal titolo. È il suo lavoro più politico, o più civile, come preferisce definirlo lui. Ci sono riferimenti indiretti alla guerra in Ucraina (nella commovente La crociata dei bambini, che mette in musica una poesia di Bertolt Brecht ed è il pezzo migliore); riflessioni sulla mascolinità tossica e il femminicidio (in La cattiva educazione, cantata da Margherita Vicario); una rinnovata critica agli eccessi del consumismo (in All you can eat, un pezzo funkeggiante che ricorda lo stile del primo album, All’una e trentacinque circa); e riflessioni sull’egemonia politica e culturale della destra in Italia (nel western La parte del torto). Ogni tanto l’antichità torna, come nella ballata folk Ariosto governatore. Chi in autunno ha ascoltato queste canzoni dal vivo, come spesso capita con Capossela, le ha apprezzate ancora di più.
2. Thru Collected, Il grande fulmine
I Thru Collected sono una strana creatura, un contenitore nel quale confluiscono artisti simili ma diversi come Sano, Altea, gli Specchiopaura e altri. Hanno un’attitudine underground, ma sono capaci di tirare fuori melodie orecchiabili. Il loro secondo disco, Il grande fulmine, ogni tanto si perde un po’ nell’arco dei suoi trenta (!) pezzi, ma quando trova gli spunti migliori regala pezzi clamorosi come Musica di merda e la conclusiva A danz ro ragn, che mescola la tradizione napoletana e salentina con il dub e l’elettronica. Il gruppo ama giocare con le citazioni, tra echi di cantautorato italiano e rock anni novanta alla Smashing Pumpkins. Un disco da riascoltare e da far sedimentare, perché semina tanto e bene. I Thru Collected meritano i grandi palcoscenici.
1. Daniela Pes, Spira
Dal talento della cantante sarda Daniela Pes, con l’aiuto del conterraneo Iosonouncane in veste di produttore e coautore, è emerso il disco d’esordio più convincente degli ultimi anni. Sette brani cantati in una neolingua che mischia dialetto gallurese, italiano e parole inventate, e che restituiscono sofferenza e catarsi. Ricordano Ira dello stesso Iosonouncane, ma la cantautrice in realtà lavora con il dialetto già da diversi anni. La voce di Daniela Pes, che ha alle spalle una formazione jazz, è uno strumento tra gli strumenti. Forte di un’estensione e una versatilità fuori dal comune, conduce in porto i brani di Spira in mezzo all’oscurità, mentre le parti strumentali pescano dal krautrock, dalla musica popolare e perfino dall’avanguardia di Stockhausen, creando un punto di contatto perfetto tra folk e pop colto. A tratti, come nel crescendo di Arca, si raggiungono vette commoventi.
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