Ida Dominijanni ha scritto un breve commento molto bello e condivisibile sulla storia di Alma Shalabayeva. Eccolo.
Nella fiera dell’ipocrisia che ha avuto la meglio, in parlamento, sulla mozione di sfiducia contro il ministro dell’interno sul caso kazaco, tutti e ahimè tutte – anche quelli e quelle che si sono meglio arrampicati sugli specchi per salvare il ministro con la mano destra ammettendo con la sinistra la gravità inedita e inaudita delle responsabilità, degli errori e delle omissioni – si sono dimenticati di sottolineare un piccolo particolare: che l’Italia ha di fatto consentito l’espulsione di una donna in quanto moglie, dando per scontato, in barba alla titolarità individuale dei diritti fondamentali, che il destino di Alma Shalabayeva si giocasse di riflesso a quello del marito, e che dunque Alma Shalabayeva non appartiene a se stessa ma, a scelta, al marito o allo stato kazaco, due opzioni alle quali secondo i più volenterosi tra i senatori italiani se ne dovrebbe aggiungere una terza, quella di tornare sotto la tutela dello stato italiano adeguatamente pentito.
La dimenticanza – chiamiamola così per pietà – non è attenuata bensì aggravata dai molteplici e commiserevoli richiami, nel dibattito del senato, a Shalabayeva madre e alla sua bambina di sei anni, fedele riproposizione della logica patriarcale per cui una donna esiste solo se è madre (coniugata) o figlia (coniugabile) e mai in sé e per sé. Trattasi, va detto e sottolineato, dello stesso senato che poche settimane fa ha giurato e spergiurato la propria fede antipatriarcale votando con un’enfasi pari all’insipienza l’adesione alla Convenzione di Istanbul contro il femminicidio. Che evidentemente non osta all’uccisione simbolica di una donna per autorizzare l’espulsione di una moglie.
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