Prima è stato il turno di Travis Kalanick, 40 anni, amministratore delegato di Uber, che il 20 giugno è stato costretto a lasciare l’azienda che aveva fondato nel 2009. Le sue dimissioni sono arrivate dopo mesi di polemiche cominciate a febbraio con la denuncia di Susan Fowler, un’ex ingegnera di Uber che sul suo blog aveva raccontato di aver subìto molestie sessuali.
Altre dipendenti si erano poi fatte avanti descrivendo un clima pesante all’interno dell’azienda, e alle denunce di molestie sessuali erano seguite dimissioni di dirigenti, inchieste interne, accuse di violazioni della proprietà intellettuale e perfino un’indagine federale per un software illegale usato per aggirare i controlli nelle città in cui Uber è presente.
Il 23 giugno si è dimesso Justin Caldbeck, anche lui quarantenne, venture capitalist del fondo d’investimento Binary Capital di San Francisco, che in una lettera di scuse pubbliche ha ammesso di aver sfruttato la sua “posizione di potere per ottenere favori sessuali”.
Il giorno prima, The Information aveva pubblicato le testimonianze di sei donne, tutte imprenditrici della Silicon valley, che accusavano Caldbeck di averle molestate quando si erano rivolte a lui in cerca di finanziamenti o consigli per le loro aziende.
Miya Tokumitsu, storica dell’università di Melbourne, ha scritto su Jacobin che “ogni abuso basato sulla differenza è il risultato naturale di una cultura del lavoro che incoraggia la competizione tra i dipendenti, pretendendo enormi sacrifici emotivi, manipolando le loro speranze e approfittando delle loro preoccupazioni economiche”.
Kalanick e Caldbeck non sono casi isolati. Sono la spia di meccanismi profondi che regolano il funzionamento di molte delle aziende più aggressive del settore tecnologico.
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