Dall’inizio dell’anno sono 56 i giornalisti uccisi nel mondo mentre svolgevano il loro lavoro. Un numero che ha già superato il bilancio di tutto il 2017, informa Reporters sans frontières.

Molti dei giornalisti uccisi negli ultimi anni sono morti in zone di guerra, ma non tutti. Dodici anni fa la giornalista russa Anna Politkovskaja è stata uccisa nell’ascensore del condominio di Mosca in cui viveva. Stava indagando sui crimini russi in Cecenia. L’anno scorso la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia è stata uccisa da un’autobomba a Bidnija. Indagava sulla corruzione a Malta. Sette mesi fa il giornalista slovacco Ján Kuciak è stato ucciso a Velká Mača. Indagava sui legami tra il governo slovacco e la ’ndrangheta. Quindici giorni fa Jamal Khashoggi, giornalista saudita, è stato ucciso nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Denunciava i metodi autoritari della famiglia reale saudita.

Omicidi molto diversi tra loro, per contesto e per movente, ma accomunati da quella che Anne Applebaum sul Washington Post ha definito una delle grandi questioni della nostra epoca: “Questi omicidi sono la conseguenza dello scontro fra due rivoluzioni del ventunesimo secolo: quella tecnologica, che rende possibile ottenere e diffondere informazioni in modi nuovi, e quella del sistema bancario offshore, che rende possibile rubare e nascondere i soldi in modi nuovi, e poi sfruttarli per mantenere il potere”.

Prima di internet ai regimi autoritari bastavano – nella maggior parte dei casi – la censura o l’esilio per mettere a tacere i giornalisti che davano fastidio. Oggi è più complicato, e per sbarazzarsi della stampa indipendente bisogna ricorrere prima al discredito e poi, se necessario, all’eliminazione fisica. E proprio perché viviamo immersi in un flusso globale di informazioni, l’uccisione di un singolo giornalista serve a intimidirne tanti altri, non solo in un paese ma in tutto il mondo.

Questo articolo è uscito il 19 ottobre 2018 nel numero 1278 di Internazionale, a pagina 7. Compra questo numero| Abbonati

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