Ha scritto Teju Cole sul New York Times Magazine: “La fotografia è inevitabilmente l’arte della memoria. Seleziona, nel flusso del tempo, un momento da conservare, mentre quelli precedenti e successivi scivolano via come rupi scoscese. (…) La fotografia è un modo di trattenere: non solo la possibilità di tirar fuori un’immagine direttamente dall’interazione tra la luce e il mondo tangibile, ma anche la possibilità di salvare quell’immagine. Un’ombra gettata su un muro non è fotografia. Ma se il muro è fotosensibile e l’ombra rimane dopo che il corpo si è allontanato, quella è fotografia. Fin dall’inizio di quest’arte, la creatività umana ha trovato il modo di duplicare il mondo visibile. Quello che ha fatto è stato regalare al mondo un modo per duplicarsi: una foto nasce direttamente da quello che è, dalla luce che viaggia da un corpo a una superficie attraverso un’apertura. Ma quando sopravvive a quel corpo – quando le persone muoiono, le scene cambiano, gli alberi crescono o vengono abbattuti – la foto diventa memoria. E quando l’oggetto fotografato è un’opera d’arte o di architettura che è stata distrutta, questo effetto è ulteriormente amplificato. Un quadro, una scultura o un tempio, come ricordo dell’abilità e delle emozioni umane, è già un luogo della memoria; e quando l’unica traccia che ne rimane è una fotografia, quella diventa un memoriale alla memoria”.

Il 21 aprile esce in edicola il nuovo Internazionale Extra. È un numero speciale: il diario fotografico della pandemia, con gli scatti di fotoreporter italiani e stranieri.

Scrive ancora Cole: “In questi giorni onniveggenti, il passaggio da ricordo a dimenticanza diventa intracciabile. La fotografia è il centro nervoso del nostro paradossale impulso a ricordare: ne abbiamo bisogno per inquadrare le perdite, ma possiamo anche sentirla assediare le esperienze che stiamo facendo, imporre una chiusura a qualcosa che dovrebbe essere ancora aperto”.

Questo articolo è uscito sul numero 1354 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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