Nell’ottobre 2017 era successa una cosa imprevista. Dopo che il New York Times aveva pubblicato un’inchiesta sulle denunce per molestie sessuali contro il produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein, l’attrice Alyssa Milano aveva twittato: “Se sei stata molestata o aggredita sessualmente, scrivi ‘me too’ in risposta a questo tweet”. Milano – rilanciando un hashtag inventato undici anni prima dall’attivista Tarana Burke – invitava le donne a raccontare la loro esperienza per “dare un’idea della grandezza del problema”. E mentre prima le donne tacevano, ora parlavano tutte. E parlavano di tutti, di uomini comuni e dei cosiddetti uomini potenti. Perché tutte avevano una storia da raccontare.
In breve tempo, quella prima presa di parola collettiva chiamata #MeToo e nata all’interno del contesto hollywoodiano, diede vita a un’ondata globale, fu affiancata da altri hashtag e declinata nei contesti di ciascun paese: dagli Stati Uniti al Pakistan, dall’India alla Cina. La notizia è che sta accadendo ancora oggi: in Grecia, in Francia e nel Regno Unito, solo per citare gli ultimi casi.
Da quell’ottobre 2017, in molti paesi sono stati avviati processi, ci sono stati licenziamenti o dimissioni. Al di là dei singoli uomini accusati, sono state approvate leggi, avviate e vinte trattative per la parità salariale, sono nate azioni collettive di donne, associazioni per il sostegno legale delle vittime di violenza sul posto di lavoro, e diversi giornali (a partire dal New York Times) hanno creato la figura di gender editor. Interi sistemi sono stati svelati o messi in discussione, creando un prima e dopo la presa di parola femminile.
Da qualche settimana, a partire dal video di Beppe Grillo in difesa del figlio accusato di stupro di gruppo, anche sui giornali italiani è riapparso il #MeToo, accompagnato da tutti i discorsi che, già all’epoca, intorno al #MeToo erano stati fatti. Accanto a chi continua a dichiarare che il #MeToo è l’espressione fanatica della “gogna antipatriarcale” e giustizialista, sembra essere molto diffusa l’opinione che il “movimento”, in Italia, sia morto o non ci sia mai stato. È vero? E se sì, perché?
Mortifero
Il 10 ottobre 2017, sul New Yorker, l’attrice e regista italiana Asia Argento raccontò di aver subìto un abuso sessuale da Harvey Weinstein. Altre donne, e tra loro Miriana Trevisan, cominciarono a parlare delle pressioni ricevute da uomini potenti dell’ambiente televisivo e del cinema italiano.
Ma le contromisure per tenerle al loro posto o per cercare di riportarcele furono rapide, mirate ed efficaci: Argento e le altre furono criticate per essere state troppo zitte e per aver parlato troppo tardi, per aver denunciato pubblicamente, ma non nei tribunali. E per essere state in qualche modo complici. Scrissero che era stato instaurato un tribunale del popolo contro tutti gli uomini, che stava dilagando una grottesca ossessione fobica. Dissero che andava distinto l’orco dal porco e che la libertà sessuale era stata messa a rischio. In molti cominciarono anche a dare buoni consigli alle donne: non esagerate per non far risultare la causa inefficace.
Il 12 ottobre 2017, giorni prima dell’inizio del #MeToo, in Italia la scrittrice Giulia Blasi lanciò l’hashtag #quellavoltache, portato poi avanti collettivamente da altre, da Gaypost.it e Pasionaria.it. Tra le cose che avevano spinto Blasi a chiedere la condivisione delle proprie storie di molestie, c’era stata proprio la testimonianza di Asia Argento e il trattamento che per prima aveva ricevuto: “Un vero e proprio avvertimento”, dice oggi Blasi. “C’erano dunque dei discorsi da aprire intorno a quella prima denuncia, per mostrare che quella cosa succedeva a tutte, non solo a lei o a poche altre. Per mostrare che il problema era ed è sistemico, e per fare un lavoro culturale”.
Si continuò, però, sui giornali e sui mezzi di comunicazione, a mettere al centro del discorso la denuncia di una singola molestia, di un singolo molestatore, e le singole voci di alcune donne che avevano preso parola. Si scelse di fingere di non sapere e di ridurre quell’imprevista parola femminile all’irrilevanza o all’inaffidabilità. La strategia funzionò. E la notizia che a un certo punto la stessa Asia Argento potesse essere coinvolta in un abuso simile a quello di cui lei stessa era stata vittima offrì all’accerchiamento una saldatura molto potente. L’effetto del contraccolpo verso il senso e il presupposto stesso del movimento fu decisivo.
“Ricordiamo sempre troppo poco, però, che queste campagne avevano un intento culturale, e anche che in Italia la quantità di uomini che hanno pagato in eccesso o proporzionalmente per le loro colpe è esattamente zero”, dice Blasi. “Com’è zero il numero di donne che hanno tratto profitto da quelle denunce. Era dura allora ed è dura ancora oggi continuare a sostenere che volevamo punire dei poveri innocenti”.
Mai nato
“A mano a mano che passavano i giorni”, racconta Blasi, “il #MeToo diventava sempre più forte. E la campagna internazionale diede la possibilità di dire che in Italia non c’era stato niente di analogo”. Fu un’operazione di convenienza: “Fa piuttosto comodo, infatti, dimenticarsi di #quellavoltache. Un conto è guardare una cosa a distanza, pensando che i mostri siano lontani o al cinema: questo ti permette di distogliere lo sguardo. Ma se tutto ha inizio dalle cassiere, dalle hostess, dalle studenti e dalle donne che ti sono accanto, significa che le persone responsabili sono qui, vicine a te, che il problema è locale e che in qualche modo devi guardarlo in faccia. Ignorarlo non è una svista: è una presa di posizione ben precisa il cui obiettivo non è altro che mantenere le cose come stanno”.
Le proclamazioni che il #MeToo in Italia non ci sia stato o che sia subito morto si basano molto spesso – in modo speculare alle argomentazioni da panico giustizialista – sul fatto che nel paese non siano state rilevanti le conseguenze per i singoli uomini coinvolti, né dentro né fuori dei tribunali. Questo non tiene però conto della storica critica femminista all’esercizio maschile della giustizia (l’agire politico non si fonda sulla giustizia, perché la giustizia si fonda sul medesimo potere che fonda il patriarcato, semplificando), ignora che quella di un femminismo vendicativo è una fantasia senza riscontri, e che parte del femminismo italiano pose da subito tutta la questione in termini politici, non penali o rivendicativi.
Carlotta Cossutta, ricercatrice in filosofia politica e parte del movimento femminista Non una di meno, conferma che sì, il #MeToo “non c’è stato nella modalità mediatica e spettacolare che ha assunto negli Stati Uniti e non ha fatto dimettere produttori o licenziare attori. Ma questo non vuol dire che il senso profondo di quel movimento – mostrare la pervasività e la dimensione strutturale degli abusi, considerati necessari e scontati per attraversare i luoghi di lavoro – non sia stato agito anche da noi”.
Qui come negli Stati Uniti e ovunque nel mondo, spiega la giornalista e femminista Ida Dominijanni “il senso del movimento è stato univoco e si riassume in due messaggi: le donne non intendono più pagare una tassa in servigi sessuali per poter lavorare e fare carriera; le donne non sopportano più la miseria di una sessualità maschile incapace di relazioni autentiche e brandita come arma di potere”. In discussione c’era l’uso della sessualità ridotta a moneta di scambio nel mercato del lavoro, non la galera.
Non personale, ma politico
Non una di meno trasformò, da subito, il #MeToo in #WeTogether: per segnalare il carattere collettivo dell’azione, superarne l’individualismo e spostarla su un piano politico. Nel 2017, attraverso assemblee e tavoli di lavoro in cui le storie delle donne furono raccontate, Non una di meno stava scrivendo il Piano femminista contro la violenza. “Questo ha certamente influito sul fatto che la battaglia politica fosse portata avanti in maniera collettiva, mettendo in luce quanto la violenza sia strutturale. Il piano stesso, forse, può essere inteso come una sorta di gigantesco #MeToo, che non si limita al racconto (pur fondamentale) e alla denuncia del singolo che abusa sessualmente (doverosa), ma che mostra il sostrato di ognuno di quei racconti”, spiega Cossutta.
In questa prospettiva, la modalità di presa di parola del #MeToo, individuale e individualizzata, dice ancora Cossutta, “cozzava contro una storia e una modalità di darsi del femminismo italiano che ha quasi sempre preferito la dimensione collettiva, in cui non emergesse una singolarità ma ci si potesse identificare nei vissuti altrui”. È sempre stato più forte, nel femminismo italiano, “avere come riferimento altre donne, come nei gruppi di autocoscienza, a cui raccontare la propria storia in un gesto che è già politica, ma che non riconosce valore allo spazio politico e mediatico generalista. Come se parlare tra donne spostasse l’attenzione e formasse quella forza collettiva necessaria a produrre rivendicazioni politiche. E in parte questo era quello che stava avvenendo con Non una di meno”.
Misurare il tasso di italianità o cercare di capire se tutto questo abbia “funzionato” non è una buona strategia. “Il femminismo è da sempre un movimento sovranazionale e in questo caso lo è stato in modo ancora più eclatante del solito. Le battaglie femministe non funzionano mai se vengono misurate con i metri contabili dell’azione politica tradizionale”, dice Dominijanni, “ma funzionano sempre se sono misurate con il cambiamento delle vite reali. Il #MeToo conferma questa regola generale: i comportamenti che ha preso di mira sono diventati sanzionabili, socialmente e culturalmente prima che giuridicamente, al livello di massa. E non solo per le donne: molti uomini ne sono usciti più consapevoli di sé”.
Dissenso comune
A cinque mesi dalle prime denunce statunitensi, più di cento attrici e lavoratrici dello spettacolo italiane firmarono un manifesto che chiamarono Dissenso comune. La lettera esprimeva sostegno alle donne che avevano preso parola contro gli abusi e sceglieva la strada di contestare non solo il potente di turno, ma un intero sistema di potere attivo anche nel loro spazio di lavoro. Tra le firmatarie mancavano le donne che avevano denunciato già da mesi, come Asia Argento e Miriana Trevisan, e di fatto nel mondo del cinema e della tv la lettera non innescò un evento a catena paragonabile a quello in atto negli Stati Uniti.
La sceneggiatrice Francesca Manieri, tra le firmatarie, ammette che Dissenso comune “è stato un fallimento politico”. Dice anche che non c’è stato un ragionamento collettivo su questo tentativo, e di poter dunque parlare solo per sé: “Con fallimento non intendo qualcosa che va rimosso, ma anzi accolto. Il fallimento è una tappa fondamentale dell’agire politico, la mancanza di assunzione del fallimento è il vero dramma, per me”. Quando fu chiamata a partecipare a questa presa di parola, nonostante non condividesse quell’agire politico, lontano dal femminismo movimentista da cui proveniva, decise di aderire. Perché “c’era una fortissima e onesta istanza di autodeterminazione delle donne che si riunirono. E quando scrivemmo che quello di cui parlavamo era successo a ognuna di noi, non era un’iperbole. Era la verità. Pensai che si potesse partire da un mondo così in vista e che per le sue stesse logiche di potere (performance, relazione verticistica tra attrice e regista, tra produttore e attrice) ben si presta a essere emblema del sistema sesso-potere-denaro, per denunciare un assetto sostanziale della società patriarcale o postpatriarcale in cui viviamo e che lo si potesse fare a partire dall’assunzione collettiva della parola delle donne”.
Sul cosa non abbia funzionato (o non potesse funzionare), Manieri ha diverse spiegazioni. “Il #MeToo, semplificando, ha avuto e ha, politicamente parlando, due caratteristiche: l’essere essenzialmente un movimento lobbistico e l’essersi connotato attraverso una specifica azione/pratica che si può sintetizzare nel fare-i-nomi. In Italia la lobby che si è costituita non aveva un potere sufficiente a contrapporsi al potere maschile che attaccava, e ciò ha causato l’impossibilità dell’assunzione di quella precisa pratica. Dall’altro lato, va detto che la storia politica di questo paese non ha nelle sue pratiche storiche la contrapposizione lobbistica e anche da questo è dipesa la fragilità dell’intera operazione”.
Il femminismo è una filosofia di vita, liberatoria e non moralista
A questo va aggiunto che è mancata la connessione tra le firmatarie del manifesto e le donne dei movimenti femministi (“Anche perché la classe è sempre la barricata più difficile da scavalcare”, precisa Manieri) e che “l’animale” che era stato attaccato e che era diventato emblema del #MeToo “era un animale morente”: “Il corpo di Weinstein, che per lungo tempo aveva rappresentato il cinema americano, era simbolicamente un corpo vecchio, parzialmente espunto dal sistema di potere, che è stato attaccato nel momento in cui era meno potente”. Evidentemente, dice, “l’animale, gli animali che qui si sarebbero dovuti attaccare non erano affatto morenti”. Ma aggiunge: “Penso che, per onestà intellettuale, non si possa eludere il piano di connivenza e contiguità che caratterizzava le donne di Dissenso comune con il mondo che mettevano sotto accusa. Una contiguità d’interesse e una ancora più complessa, che è quella affettiva. Tuttavia domandiamoci: la politica delle donne per essere degna dev’essere sacrificale? Io penso che questo sia un altro assunto della critica alla politica della parola delle donne che va radicalmente messo in discussione”.
Dopodiché, ammette Manieri, c’è la responsabilità politica di non aver riconosciuto l’autorità della parola delle donne che avevano parlato e “io, per questo, chiedo personalmente scusa a Miriana Trevisan, alle decine di ragazze che hanno denunciato Fausto Brizzi, e ad Asia Argento”. Sostenere la parola delle donne anche quando non risponde alle aspettative, dice Manieri, “significa sostenerla anche quando appare controversa, altrimenti si ricade nel primo e sostanziale meccanismo di difesa del sistema maschile, che è la delegittimazione della parola delle donne. La parola femminile va assunta anche per il suo carattere di eccedenza, oscenità, disturbo che contiene e non solo quando è conforme o efficace. Però va anche detto, e mi assumo la responsabilità di quello che dico, che non basta uno stupro o una violenza a connotare un fatto di rilevanza politica femminista, ci vuole un’assunzione politica dell’evento”.
Quello che per Manieri resta, dell’esperienza del #MeToo, “è soprattutto il fatto che questo movimento ha riposizionato al centro della scena politica la sessualità, dopo anni in cui una certa visione de-sessualizzata del genere aveva mascherato la dinamite che sta nella sessualità. E mi torna in mente Carla Lonzi quando diceva che ‘il cazzo diritto’ (credo lei dicesse pene) è un segnale di potere. Senza l’abolizione dello schema sessuale maschile, e senza una presa di coscienza di cosa ci sia dietro al concetto di ‘donna vaginale’, la rappresentante del piacere ufficiale concesso dalla cultura patriarcale, non c’è femminismo. Lo ricordo ai miei colleghi maschi, ai più evoluti e alle donne che cedono al moralismo: il femminismo è una filosofia di vita, liberatoria e non moralista. E la cultura dell’ineluttabilità del cazzo reciprocamente dritto non assomiglia all’erotizzazione del mondo, ma è un dispositivo di potere collettivo che fonda una cultura del sopruso: finalizzata non a generare vittime, che è irrilevante, ma a costruire una classe oppressa”.
Rimozioni colpevoli
Se è improprio affermare che in Italia il #MeToo non ci sia stato è però vero che qui il circuito denuncia femminile-mezzi d’informazione-politica ha funzionato diversamente. Il #MeToo in Italia, dice Dominijanni, “è stato sommerso nei mezzi d’informazione da un’ondata di miscredenza, discredito e misoginia impressionante”. E non è un caso, ricorda Blasi, che i dati emersi dalla prima indagine italiana sulle molestie sessuali nel mondo dei mezzi d’informazione – che parlava di un 85 per cento di giornaliste molestate almeno una volta nel corso della vita professionale – non abbiano avuto seguito.
Dominijanni si spiega solo in un modo quella che definisce “una peculiare misoginia dell’establishment intellettuale e giornalistico italiano”: “Come vendetta rispetto a un precedente significativo e vincente, che era stato il movimento femminile politico e d’opinione che aveva detronizzato Berlusconi ai tempi dei cosiddetti scandali sessuali, tra il 2009 e il 2011. Non abbiamo mancato il #MeToo, l’abbiamo anticipato: e non ci è stato perdonato”.
Sul rapporto tra sessualità e politica nella fine di Berlusconi, Dominijanni ha scritto il libro Il trucco (Ediesse 2014). Spiega che “la denuncia del sistema di scambio fra sesso, potere e denaro che sottostava al regime politico, etico ed estetico di Berlusconi partì nel 2009 grazie alla denuncia di alcune donne: emblematicamente, la moglie dell’allora presidente del consiglio, Veronica Lario, una sua favorita, Patrizia D’Addario, e un’intellettuale della sua area politica, Sofia Ventura, alle quali si aggiunsero in seguito alcune testimoni dirette delle sue cosiddette cene eleganti, fra le quali Ambra Battilana che ritroveremo fra le accusatrici di Weinstein negli Stati Uniti”.
A partire da queste prime denunce personali-politiche “si attivò il lavoro giornalistico d’inchiesta e di analisi, femminile e maschile, e si attivò anche un forte movimento di opinione pubblica, soprattutto femminile ma per una volta non privo di contributi maschili rilevanti”. I giornali e le tv di Berlusconi (in prima fila anche in tempi recenti contro il #MeToo) lavorarono con forza in difesa del presidente del consiglio: “Ma il sostegno di una parte dei mezzi di informazione italiani fu cruciale allora, come lo è stato in seguito per il #MeToo negli Stati Uniti”.
Nel caso del #MeToo in Italia questo sostegno è mancato. “Forse perché non c’era più un premier da abbattere, il che significa che in buona parte, ai tempi di Berlusconi, il sostegno era stato strumentale”. La risposta del circuito politico e giornalistico mainstream fu dunque, per Dominijanni, contestuale e finalizzata solo all’abbattimento di Berlusconi: pertanto inadeguata. Il mondo di quei mezzi d’informazione in Italia “ha in comune, con tutto il mondo del lavoro, una fortissima resistenza maschile a cedere spazio ai primati femminili. C’è un’immensa ignoranza sul femminismo, che viene inteso come richiesta di parità competitiva con gli uomini e non come pratica femminile di autonomia e indipendenza, ed è del tutto sconosciuto nelle sue articolazioni interne. E c’è soprattutto una diffusa diffidenza verso la presa di parola femminile, come se, a fronte di una massa di uomini ai quali è concesso dire di tutto, alle donne, e in particolare alle donne che denunciano comportamenti maschili scorretti, fosse sempre richiesto un supplemento di credibilità e di attendibilità”.
La stessa inadeguatezza la dimostrarono gli ambienti della sinistra che lessero il Berlusconi-gate come uno scandalo sessuale e un fatto privato privo di rilevanza politica a cui trovare un rimedio giudiziario, ma anche parte del femminismo nato dopo il 2011 con Se non ora quando, la cui risposta fu considerata, da molte, ambivalente: per la difficoltà che dimostrò a riconoscere autorevolezza, credibilità ed efficacia alle parole delle donne che si erano ribellate, dall’interno, al sistema berlusconiano.
“Negli Stati Uniti il #MeToo si è giovato di un più vasto movimento di opposizione politico e giornalistico a Trump e aveva già scatenato la protesta delle Women’s march all’indomani della sua elezione”. E il sostegno giornalistico non fu condizionato e contingente: “Ha segnato una vera svolta nell’accreditamento della parola femminile, da allora sempre più presente nei mezzi d’informazione generalisti. I quali non hanno più mollato la presa, hanno aperto nuove finestre di monitoraggio dello stato dei rapporti fra i sessi, hanno arruolato nuove commentatrici. Non solo: la stagione delle Women’s march e del #MeToo ha anche aperto la strada allo sfondamento delle candidature femminili al congresso statunitense nelle elezioni di metà mandato, nonché alle ultime presidenziali”. Nulla di tutto questo è accaduto in Italia: “La detronizzazione di Berlusconi a opera delle donne – perché di questo s’è trattato – non ha sedimentato niente né nei mezzi d’informazione né nel sistema politico”, conclude Dominijanni. È stata cancellata. E questo, ancora oggi – dopo analisi e autocritiche di chi il #MeToo l’ha fatto, ha provato a farlo o l’ha sostenuto –, è il nocciolo del problema.
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