Globalizzazione, desindacalizzazione, finanziarizzazione, walmartizzazione, robottizzazione: sono “i fattori che hanno cominciato a erodere il benessere degli statunitensi negli ultimi trent’anni”, secondo Harlod Meyerson (Internazionale 1041, pagina 40). Secondo i manuali di stile invece, sono le parole che alla lunga erodono la chiarezza e la vivacità della scrittura.
I grammatici le chiamano nominalizzazioni. Nascono dalla smania di trasformare i verbi (come in questo caso), gli aggettivi e altri pezzi del discorso in sostantivi. “Un eccesso di nominalizzazioni in uno scritto giornalistico può essere un’indicazione della tendenza alla pomposità e all’astrazione”. La frase che avete appena letto, adattata da un esempio dalla studiosa statunitense Helen Sword, dimostra quanto può essere oscura una frase piena di sostantivi. Non cattura certo l’attenzione: è lunga, vaga, tutta idee e poca azione.
Ma se ritrasformiamo le nominalizzazioni nei verbi e negli aggettivi da cui derivano, e attribuiamo l’azione a delle persone invece che a un concetto, la frase si rianima, diventa più dinamica e concreta: “I giornalisti che riempiono i loro articoli di nominalizzazioni appaiono spesso pomposi e astratti”. Come se parlare difficile servisse a darsi un tono.
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